La chiesa di San Donato a Ripacandida potrebbe essere definita, per antonomasia, la "piccola Assisi" di Basilicata.
Infatti, oltre al tipico impianto francescano ad aula unica, priva di transetto e con coro rettilineo, ha, in analogia con la Basilica assisiate, tre campate voltate a crociera ogivale, esempio unico in tutta la regione, ed è affrescata nell'interno per l'intera estensione delle superfici disponibili.La serie di Santi dell'ordine effigiati nelle
pilastrate - Francesco, Antonio, Ludovico e, forse, Bonaventura -non lascia dubbi sulla sua originaria destinazione ad una comunità francescana. Parrebbe, inoltre, che essa sia sorta su una chiesa preesistente, attestata dalle "Rationes decimarum" dell'anno 1325 quale pertinenza della mensa vescovile di Rapolla ed affidata ad un chierico; la stessa cui è riferibile un'altra precedente citazione contenuta in una bolla di Eugenio III dell'anno 1152.Non esistono documenti per la datazione della chiesa attuale, ma, ipotizzando che l'affrescatura interna abbia seguito di poco l'ultimazione della struttura muraria, la si potrebbe legittimamente fissare ai primi anni del XVI secolo. Né si sa con certezza - ma è altresì probabile - se sia intervenuto il concorso del feudatario del luogo alla spesa non lieve richiesta dalla costruzione della chiesa e del convento.Certamente deve ritenersi un secondo insediamento quello documentato al 1604, anno nel quale l'università di Ripacandida chiese ed ottenne dal Vescovo di Melfi che la chiesa ed il convento fossero affidati agli Osservanti, che già da due anni, nel Capitolo provinciale di Terlizzi, avevano programmato un nuovo stanziamento a Ripacandida, dopo quello di Melfi, Venosa, Atella e Forenza.L'interesse del monumento si incentra in particolare sulla decorazione affrescata sui pilastri, nei pennacchi, nei lunettoni delle pareti e, a tre livelli, sulla volta. Il ciclo della Genesi ha inizio nella terza campata, sull'asse dell'altare, a cornu evangeli, e si estende a tutta la campata mediana con le storie bibliche fino a quelle di Giuseppe. La prima campata è invece dedicata al Nuovo Testamento, dall'Annunciazione alla Resurrezione.Va subito notato che tra gli affreschi della terza e della seconda campata e quelli della prima vi è un netto stacco di stile e di tempi, oltre che di programmi, e si registra il subentro di almeno un nuovo pittore. Infatti alla rigorosa coerenza delle storie bibliche, per le quali la fedeltà al testo presuppone l'intervento di un chierico sul pittore, ed alla rigorosa spartizione degli spazi, in perfetta simmetria, succede una disorganica distribuzione degli episodi nel ciclo evangelico: sicché la Cena, la Crocifissione e la Resurrezione sono confinate nella parete di retroprospetto e la Pietà è inserita addirittura su una parete della terza campata per lasciare spazio agli inserti di quattro Sibille ed altrettante Virtù e all'appendice dei Novissimi - Inferno e Paradiso - collocati sulle pareti a sinistra e a destra dell'ingresso (1) .La seconda fase dei lavori potrebbe essere stata determinata da un evento sismico, con danni soprattutto alla prima campata. Certo è che ad essa seguì, a completamento, la realizzazione dei freschi sulle pilastrate, con santi francescani per i quali operò un raffinato pittore ben distinto dal livello medio del ciclo cristologico.La decorazione pittorica della chiesa si concluse verso la metà del '700 con ulteriori immagini di Santi francescani (San Diego, San Giacomo della Marca, San Giovanni da Capestrano, San Bernardino da Siena, Santa Agnese e Santa Chiara), presentati anch'essi sui pilastri ma a metà busto ed in finte nicchie con vistose conchiglie per calotta, e con schiere di putti angelici addensati nella fronte dell'arco trionfale.Manomissioni, alterazioni intervenute nel tempo e perdita di immagini per sovrapposizione di altari e lapidi barocche, nonché di una cantoria, hanno decurtato o distrutto interi brani di affresco, soprattutto nelle pareti laterali, ed una di queste, nella campata centrale, ha perduto completamente l'originaria decorazione, mentre sul lato opposto sopravvivono frammentarie le Storie di Sant'Antonio Abate, coeve a quelle della Genesi (2) . L'ultimo scempio, purtroppo sulle vele, si è consumato nel 1953 con un pesante intervento strutturale e successive ridipinture di mascheramento, che un recente restauro ha eliminato mettendo a nudo la vastità delle perdite.La stesura degli affreschi denuncia, quindi, almeno tre successivi interventi di pittori diversi, a prescindere da quello della metà del '700, dovuto al modesto Pietro Di Giampietro da Brienza, attivo sui pilastri e sulla fronte dell'arco trionfale (3) .Ripercorrendo a ritroso le fasi ed i tempi di esecuzione inizieremo dalla serie dei santi francescani che, trovandosi sulle pilastrate della navata, dovette essere realizzata dopo il ciclo biblico e quello cristologico.E la serie include il brano più prestigioso di tutto il corredo pittorico della chiesa: l'Estasi di San Francesco.Il Santo orante ha lo sguardo fisso al Cristo serafino, che dal cielo a braccia aperte e piedi sovrapposti, come in croce, gli appare tutto infuocato nel turbinio delle ali che lo avvolgono come lingue di fuoco. Il rapimento di Francesco è esaltato dal contrappunto dei gesti, dalla posa instabile e dalla specola del saio che si apre quasi a scatto per evidenziare la piaga del costato. La scalatura in profondità dello spazio è scandita da Frate Leone che, estraneo all'evento, è tutto irradiato di fervore mentre medita sul breviario aperto sulle ginocchia, e dalla chiesetta della Porziuncola, che si profila con nitore geometrico nell'ansa di due quinte di rocce di un'arida Verna. La caratura qualitativa del dipinto emerge, tra l'altro, dalla struttura della composizione, bene articolata entro il condizionamento dello spazio disponibile, e dalla naturalezza del trapasso alla quiete dell'estasi dalla prorompente vitalità espressa dall'affondo dei piedi e dalla stazzonatura a terra delle pieghe del saio.Si apparentano al San Francesco in estasi un S. Antonio da Padova ed un probabile San Bonaventura, recanti entrambi per attributo il giglio ed il libro. Si apparentano non solo per l'identità delle aureole dorate e con uguali punzoni e raggiera ma anche per la presenza degli stessi volti smunti, a zigomi alti, sopracciglia allungate, labbra esigue ed orecchie tirate in su.Medesimi caratteri tornano nella figura di un suadente Precursore, confinato anch'esso sulla facciata di un pilastro. Una strana iconografia, inusuale per la provincia, ma consueta nella capitale, lo rappresenta avvolto in un mantello, qui soppannato di rosso, che scende a larghe falde fino a trovarsi con un lembo sotto al piede del santo. Una cascata di pieghe, risvoltate a cannelli, scopre la tunica di pelle caprina, sfilacciata a grossi bioccoli nel suo bordo inferiore. Ed il messaggio di Giovanni, abitualmente affidato al rotulo, qui ridottissimo, è sostituito dal gesto allusivo all'Agnello Mistico, collocato in alto, in miniatura e quasi araldico. L'immagine è tutt'altro che iconica; ha vivacità e naturalezza d'impianto e, nella definizione del panneggio, maggiore dovizia di dettagli di quanto non potesse offrire la castigatezza del saio nei due santi francescani.Infine altri tre santi - Lorenzo, Ludovico e Lucia - si esibiscono su altrettanti pilastri, realizzati con minore impegno e forse affidati ad aiuti, ma su cartone sicuramente del maestro: e qui basti notare, per le raffigurazioni di Lorenzo e Ludovico, la vivacità e la naturalezza delle pieghe increspate sul mattonato del pavimento (4) .Eccetto, forse, che per la Santa Lucia - che ha abito francescano e reca quale attributo, oltre la coppa consueta con gli occhi, lo stilo che ha lasciato la ferita nella gola - la redazione dei santi è riconducibile ad un artista di notevole levatura.Questi, a nostro avviso, è Nicola da Novasiri, un pittore che a Senise nell'antico chiostro dei Minori firma e data nel 1513 un Cristo in Pietà, con nello sfondo i simboli della Passione, affrescato accanto ad un'Eva impudica; e nella chiesa adiacente di San Francesco ha una Vergine con il Bimbo in trono in un'edicola, due Santi nell'intradosso della stessa ed infine, nella sagrestia, un San Bernardino entro un'edicola fantasiosa e tutta gotica (5) .A quella data Nicola risulta decisamente attardato su una cultura provinciale. Nell'affresco con la progenitrice la definizione dell'ambiente, idealizzato da una cortina merlata con sequenza di mensole e beccatelli, ci riporta addirittura a ricordi del "Maestro delle tempere francescane", che dovette lasciare in Basilicata più di un segno oltre il trittico di Colobraro (6) . Nel Cristo in Pietà l'iconografia ha precedenti in Roberto di Oderisi e in Giovanni da Gaeta, per rimanere nell'ambito del reame, e la sequenza delle mensole poste a cornice ricorda soluzioni arcaiche di tipo cavalliniano. Stessa cultura rétro è nel trono gotico della Vergine, nell'edicola del San Bernardino e negli archi a schiena d'asino che includono la Santa Caterina e il Sant'Antonio dell'intradosso. È pur vero che la committenza era orientata a convinzioni e gusto tradizionali, sicché nella stessa chiesa di San Francesco si avrà, nel 1522, il fastoso polittico di Simone da Firenze, con profusione di fondi oro ed una fiammante carpenteria di smaccato timbro gotico fiorito. Ma è anche vero che già nel 1503 era giunto a Calciano uno splendido trittico rinascimentale firmato da Bartolomeo da Pistoia che purtroppo non ebbe eco nell'ambiente lucano.È stato già detto che Nicola esprime una schietta adesione al gotico internazionale con riferimento ai circuiti della Napoli aragonese e rimandi a Giovanni da Gaeta, come a dire ad una congiuntura iberico-fiammingo-marchigiana che fioriva nella capitale ma soprattutto nell'entroterra ai confini con la Basilicata. Raffronti ravvicinati lo legano al "Maestro di Teggiano" (1487), ma soprattutto al "Maestro di Miglionico", che opera appunto a Miglionico (circa 1465) e ancora più a Matera (in Santa Maria de Idris, in San Pietro Caveoso, nella chiesa rupestre della Madonna delle tre porte) (7) . E non può escludersi, inoltre, per lui un'educazione o un esercizio miniatorio, rinvenibile nell'uso calligrafico della linea sottile a capello, ora scritta ora lumeggiata di bianco, che lo caratterizza a Senise.Ma l'affrescatura dei pilastri della chiesa di San Donato a Ripacandida denuncia un momento successivo dell'attività di Nicola da Novasiri, con una data che impegna l'inizio del terzo decennio del secolo XVI. Vi si avvertono, infatti, ulteriori recuperi dalla capitale, filtrati da conoscenze dell'opera di Andrea d'Asti, alias "Maestro dei Penna", e in special modo dal polittico dell'oratorio dei Santi Filippo e Giacomo, dove, tra l'altro, si ritrova nel Precursore quel particolare già notato del lembo del mantello trattenuto sotto il piededestro (8) .Individuare l'autore del ciclo cristologico, intervenuto a coprire vele e pareti della prima campata, non è stato agevole perché è discontinuo e spesso presenta cadute di qualità determinate dalla collaborazione di aiuti modesti.Questi, a nostro parere, è quell'Antonello Palumbo di Chiaromonte sul Sinni il cui nome è apparso solodi recente e casualmente in margine ad un affresco che in San Francesco a Pietrapertosa è rimasto nascosto, sin dal 1628, dalla tela con l'Immacolata di Francesco Guma.Vi è raffigurata una Madonna in Maestà, seduta su un trono marmoreo con alto dossale, absidato e concluso da un catino a conchiglia, affiancata dai Santi Pietro e Paolo entro archetti trilobati dai quali sporgono due angioletti con strumenti della Passione, verso cui si indirizza lo sguardo del Cristo infante. Una decorazione esuberante invade stipiti e mostra dell'arco, orla il manto della Vergine, il cuscino con le nappe, il libro dei due santi. L'esecuzione è affrettata e disinvolta con il consueto ricorso a profilature e rialzi di biacca. La data segnata sull'affresco è il 1498 e la parentela anagrafica di Antonello con Giovanni Palumbo di Chiaromonte, che quattro anni prima firma e data il trittico murale della chiesa del Calvario di Maratea, è confermata dal plagio della nostra immagine da quella analoga di Maratea.Antonello è riconoscibile in un altro affresco, datato 1517, nell'absidiola della cappella dell'Annunziata a Rivello: un'Ascensione in cui angeli con preziose tuniche svolazzanti e maniche a sbuffo circondano e sollevano la mandorla col Cristo in Maestà. L'opera, purtroppo, è scarsamente leggibile, perché in gran parte ancora ricoperta dallo scialbo e pesantemente ritoccata.Ancora un'opera sua era in un'edicola affrescata nella Rocca di Calciano: una Madonna di Loreto fra S. Michele e un santo vescovo e, nella lunetta sovrastante, un Cristo in Pietà contro una dilatata veduta di paese, irto di pinnacoli e campanili, con cinta muraria e porte urbiche. E qui, ad una data che non va oltre il secondo decennio del '500 - per via dell'armatura del San Michele, identica a quella dell'arcangelo del polittico di Simone a San Chirico Raparo - Antonello è in bilico fra il fratello Giovanni, di cui adotta i panni da parata, vermicolati a ramages, come a Maratea, e Nicola da Novasiri, timidamente richiamato nella grafia della linea disegnata e sottesa dai rialzi di biacca visti a Senise.Quest'affresco in passato era stato attribuito come primizia a Giovanni Todisco da Abriola (9) insieme ad una modesta icona murale della Madonna - dichiarata di Costantinopoli, ma in realtà di Loreto - in Santa Maria di Principio a Lavello, che ora riconosciamo ad Antonello. La data, purtroppo, è abrasa, ma andrà collocata dopo l'affresco di Calciano.L'autografia delle opere finora recuperate è affidata soprattutto a taluni idiotismi come l'esuberanza decorativa, intesa ad impreziosire damaschi ed estofadi con bizzarre ed estemporanee invenzioni dell'ornato, con inclinazioni, dunque, dichiaratamente valenzane.Il trapasso dall'icona di Lavello agli affreschi di Ripacandida è quasi immediato, e basta il raffronto con la Giustizia e con il gruppo delle donne della Visitazione a renderlo convincente. Altra verifica può istituirsi fra il San Michele della Rocca di Calciano e la stessa Giustizia di Ripacandida nella definizione della bilancia o nel modo di impugnarla.Gli affreschi di San Donato segnano il momento di maggiore avvicinamento allo stile di Nicola: visi addolciti, vitini da vespa, scioltezza del disegno con marcatura della linea di contorno, resa prospettica, sia pure intuitiva, e ricorso a definizioni di ambiente, quali esterni con case balconate e bifore o interni chiesastici con slanciatissime colonne e pilastri. Il carattere popolaresco investe ambienti e personaggi con rapidi notazioni descrittive. Nella Natività un pastore allieta le pecore col suono della zampogna ed ha il cane in ascolto ai suoi piedi e la botticella con la ciambella del pane appesa all'albero adiacente; nell'Annuncio, dove Gabriele ha ali da rapace ed una tunica che atterra in un mare di pieghe, per rendere più familiare il significato dell'Incarnazione è l'Eterno che plana recando l'offerta del Bambino già cresciuto.Il senso didascalico è sottolineato da scritte in volgare che quando non trovano spazio disponibile scantonano fuori campo. Sono massime di sapienza contadina: "INFERNO NON HABET" ( e, fuori del rotolo) "REDECIO"; oppure "LOMO VOLE ESSERE FORTE COTRA LO DIMONIO", fatto sbordare lungo la cornice adiacente; e, sul rotulo di una "SEBILLA", "VA[DE] RET[RO] SATANAS", col seguito graffito sotto al rotulo. È quasi ovvio ipotizzare che a sua volta Antonello disponesse di aiuti. A loro è affidata la redazione dell'Inferno nella parete destra entrando. Qui si scatena la bizzaria del più esagitato espressionismo popolaresco, con scadimento di qualità ma con notevole estro nel sabba demoniaco intorno alla città di Dite ed abbondanti didascalie per i vari tipi di reprobi. Rimane ora da individuare l'identità del primo maestro, autore delle storie bibliche. Dai più si è ammesso che si tratta certamente di un pittore di estrazione locale, perché si compiace di notazioni tratte da un ambiente a lui familiare e traduce eventi storici in episodi di una quotidianità feriale, con la complicità e la naturalezza di un recitativo di paese (10) .Nel Distacco di Lot da Noè un gregge di pecore è al pascolo ed il pastore, a ridosso di un monticello, dà fiato alla zampogna. In basso un secondo mandriano spinge un gruppo di bovini e di camelidi, reinventati questi ultimi con forme approssimate e fantasiose. Ma la scena che ha colore locale più schietto è nella famigliola del contadino che a piedi sembra tornare dai campi, a sera, tenendo a guinzaglio l'asino, caricato della sua donna con due bambini. Segue un'altra giumenta con in groppa tre fratelli, comandata dalla voce dell'uomo che la segue, mentre un massaro, anch'egli a cavallo, dà ordini ai famigli che l'attorniano. L'episodio del distacco del patriarca dal nipote Lot nell'economia dell'insieme bucolico è quasi un inserto e l'abbraccio affettuoso è argutamente confortato dai due palafrenieri che frenano l'impazienza delle bestie già bardate e scalpitanti.Altre gustose annotazioni, traslate dalla realtà quotidiana o dal mondo contadino, si insinuano nell'austerità del Sacrificio di Abramo. Due servitorelli, seduti sul ripiano della roccia, dopo aver legato l'asino ad un piolo piantato per terra, si contendono la botticella dell'acqua, tolta dalla bisaccia che è accanto.Altrove sono felici carature emotive a caratterizzare la trepidazione di Sara mentre il cieco Abramo benedice Giacobbe, entro il solito cubicolo, oppure la sollecitudine tutta materna della stessa che sull'uscio di casa si congeda dal figlio che fugge mentre Esaù appresta al padre, che ricusa, la nuova pietanza. La Costruzione dell'Arca o della torre di Babele ci documenta sulle fasi di lavoro vuoi di carpenteria che di muratura. E vi sono operai alla ruota dell'argano, capimastri che sovrintendono, fabbricatori che su ponti volanti allineano ed assettano mattoni, mentre arrivano a spalla mastelle di calce che si impasta a piè d'opera.Una fantasia più spiritosa che truce ispira talune scene drammatiche come L'incendio di Sodoma, vulgata in castello angioino: lingue di fuoco esplodono come ciuffi ribelli di parietaria dai giunti delle pietre e il fumo si traduce in lapilli proiettati in cielo al pari di fuochi d'artificio. E così anche L'uccisione di Abele ove, col sangue che schizza dal capo sotto la randellata di Caino, in traiettoria verso l'alto sale al cielo l'animula.Tutto si svolge all'insegna dei buoni sentimenti, con semplicità e naturalezza. Tutto è familiare. Ne Il matrimonio di Giacobbe con Rachele il buon Labano, entro le mura domestiche, congiunge le destre degli sposi, entrambi in abiti feriali. E la Lotta con l'angelo di Giacobbe si traduce in un abbraccio bonario e festoso.Per paradossale nostalgia del passato riappare una scala gerarchica (traduzione in campo profano di quella teologica) con dimensioni riduttive per figure o personaggi minori, ed è un modo per differenziare i ruoli del racconto. Soluzioni altrettanto arcaiche sono quelle scatole cubiche aperte sul davanti a mostrare scene di interni domestici.L'urgenza del racconto spesso ha tono di favola e vi concorre quel paesaggio lunare con rocce silicee a balze seghettate e gli azzimati damerini e le pulzelle ritrose che recitano in abiti aggiornati al '400: le donne con veste lunga ad alto cinto ed uno scialle che avvolge loro il capo come un turbante e scende sul fianco con un lembo o avvolge il collo a mò di soggolo, gli uomini tutti con giubbotto, gonnellino e calzabrache e, per copricapo, zucchetti e berrette o cappucci a becco.La scarna letteratura che finora si è esercitata sull'autore degli affreschi biblici concorda nel ritenerlo di estrazione locale, con educazione miniatoria, formatosi in una cultura tardo odorisiana. Si sono citate per possibili influenze gli affreschi di Sant'Angelo a Rovescanina, riconosciuti a Perinetto da Benevento, ed in più il complesso di Santa Caterina a Galatina che offriva spunti culturali marchigiano-pugliesi-partenopei. E la datazione è stata fissata alla seconda metà del '400 (11) .A noi preme, invece, far notare quanto finora è stato trascurato, e cioè stranissime analogie e puntuali coincidenze istituibili fra l'ignoto autore degli affreschi dell'Antico Testamento e le opere di Nicola da Novasiri.La maschera facciale di Caino nella scena del Rimprovero dell'Eterno è sovrapponibile al San Francesco in Estasi. La roccia che nella stessa scena si avvita in alto, sfaldata ed a ripiani, la si ritrova identica nell'Estasi. Le aureole dorate dell'Eterno, degli angeli e dei patriarchi sono simili nei punzoni e nelle raggiere a quelle dei santi francescani e dello stesso San Francesco. L'ampia caduta del manto nell'Eterno ed in Giacobbe che redarguisce il piccolo Giuseppe, dopo il sogno dei covoni, ha eleganze e finezza quasi senesi e le stesse cadenze con altrettanto decoro si ritrovano nel comporsi mollemente a terra delle pieghe del saio di San Francesco e delle tonacelle di San Lorenzo e San Ludovico. Per quest'ultimo la morbida matassa dei capelli richiama le capelliere a damerino dei parenti di Noè, che attendono di entrare nell'Arca.Ancora comune è il ricorso agli stampini, al decoro cosmatesco, alla cerchiatura di scuro che profila le immagini per aiutarne lo stacco dal fondo. Infine fa testo la squadratura geometrica e metafisica degli edifici.Tutto ciò non può considerarsi casuale. Si aggiunga che Antonello, di cui è chiara la devozione a Nicola, nella sua fase di intervento, nella prima campata, riprende le medesime scheggiature delle rocce, ripete la stessa figura dello zampognaro nella scena del Presepe e lo stesso tipo di albero ad infiorescenza. Ed è credibile che lo faccia non per simulare una continuità ideale col maestro della Genesi quanto, invece, per dipendenza dal suo maestro.Queste considerazioni convergono sull'ipotesi che l'affreschista del Vecchio Testamento sia,intorno al 1506, lo stesso Nicola da Novasiri in una fase iniziale della sua carriera. L'interruzione del ciclo biblico, da addebitarsi probabilmente a trauma sismico, avrebbe determinato l'intervento di Antonello, individuabile nel ciclo cristologico, tra il primo ed il secondo decennio del secolo. Con il successivo ritorno di Nicola, all'inizio del terzo decennio, si sarebbe infine affrescata sui pilastri la serie dei santi francescani.Note1 L'Inferno e il Paradiso, tradizionalmente inclusi nel tema del Giudizio, venivano rappresentati di norma sulla parete di retroprospetto. Qui invece la raffigurazione è sdoppiata sulle due pareti della prima campata. Inoltre l'iconografia del Paradiso, espresso come un castello con balze merlate, ha richiami all'affresco, databile al 1431-35, nella chiesa dell'Annunziata di S. Agata dei Goti (Navarro 1987, fig. 630).2 L'introduzione di episodi della vita di S. Antonio abate, santo per altro assai caro al mondo agro-pastorale, e più ancora di immagini a metà busto, sui pilastri, dei Santi anacoreti Paolo ed Onofrio, potrebbe essere in relazione con lo stanziamento di colonie di Albanesi ortodossi, avvenuto a Ripacandida, Ginestra, Maschito e Barile, a partire dal 1478, data della conquista ottomana dell'Albania. E il rito greco in queste terre durò fino al 1627 (Gentile 1975, p. 73). 3 Pietro di Giampietro, nato a Brienza nel 1709, è noto soprattutto per i freschi del chiostro e per la decorazione del plafone della chiesa di S. Francesco in San Martino d'Agri, firmati e datati al 1743-44 (Convenuto 1988, pp. 212-215). È fratello minore di Leonardo di Giampietro, pittore che nel 1727 firma sempre a Brienza una Deposizione nell'ex convento dell'Annunziata ed altri affreschi nella chiesa di S. Maria degli Angeli. Pietro di Giampietro nella sua città natale affresca nel 1740, nel chiostro dell'ex convento dell'Annunziata, una Immacolata e Storie di S. Francesco ed Antonio, e nel 1750, nella chiesa di S. Giuseppe, Storie del Santo e della vita di Cristo. Sono inoltre suoi quattro sportelli d'organo con i Santi Pietro, Paolo, Andrea e Giovanni ed un dipinto su tela raffigurante una Madonna col Bambino ed i Santi Bernardino e Benedetto da Palermo (Volpe 1987, pp. 55-56). A Laurenzana, nella chiesa parrocchiale, realizza un polittico murale e decora il soffitto con Evangelisti e Dottori della Chiesa. A Cirigliano, nella cappella Formica, dipinge la Via Crucis.4 Nuccia Barbone Pugliese (1988, pp. 194-195) assegna allo stesso autore del S. Lorenzo, oltre il S. Ludovico da Tolosa, una frammentaria Pietà, tipo wesperbild, ed un S. Francesco che consegna la Regola, egualmente frammentato. Il S. Lorenzo ha ai suoi piedi un offerente, per cui l'affresco è da considerarsi un ex voto e perciò estraneo alla sequenza dei Santi dell'Ordine.5 Grelle Iusco 1981, pp. 57 e 64.6 Per il trittico di Colobraro si veda Grelle Iusco, op. cit., p. 39. Allo stesso "Maestro", Leone de Castris (1986, p. 421 n. 36) attribuisce un lacerto di affresco nella cripta di S. Lucia alle Malve, a Matera.7 Per il "Maestro della Pietà di Teggiano" si vedano Restaino 1989, pp. 48-49 e Abbate 1998, pp.175-176. Per il "Maestro di Miglionico": Grelle Iusco, op. cit., pp. 169-171.8 Per il "Maestro dei Penna" si veda Bologna 1969, pp. 349 e fig. VIII-20-22 e Abbate op. cit., pp.145-147.9 Grelle Iusco, op. cit., p. 83. Alla data di edizione di Arte in Basilicata la personalità di Antonello Palumbo era completamente sconosciuta: il che spiega l'assegnazione dell'opera a Giovanni Todisco da Abriola, che si educa all'ombra di Nicola da Novasiri. La Madonna col Bambino tra S. Giovanni Battista e l'Evangelista della chiesa del Convento di Petrapertosa, già assegnata al Todisco, va restituita a Nicola.10 Grelle Iusco, op. cit., pp. 57-58, Barbone Pugliese, op. cit., pag.195, Navarro, op. cit., p. 470.11 I rimandi agli affreschi di S. Angelo a Rovescanina ed a quelli di Galatina sono in Barbone Pugliese, op. cit., p. 195. La datazione è stata riferita da questa studiosa ed in precedenza dalla Grelle Iusco (op. cit., p. 58) alla seconda metà del sec. XV per la presenza fra gli affreschi di un'immagine, creduta di S. Bernardino, canonizzato nel 1450. Il Santo in questione è invece un domenicano, forse S. Vincenzo Ferrer, il cui culto era assai caro alla corte di Napoli ed alla causa spagnola.
pilastrate - Francesco, Antonio, Ludovico e, forse, Bonaventura -non lascia dubbi sulla sua originaria destinazione ad una comunità francescana. Parrebbe, inoltre, che essa sia sorta su una chiesa preesistente, attestata dalle "Rationes decimarum" dell'anno 1325 quale pertinenza della mensa vescovile di Rapolla ed affidata ad un chierico; la stessa cui è riferibile un'altra precedente citazione contenuta in una bolla di Eugenio III dell'anno 1152.Non esistono documenti per la datazione della chiesa attuale, ma, ipotizzando che l'affrescatura interna abbia seguito di poco l'ultimazione della struttura muraria, la si potrebbe legittimamente fissare ai primi anni del XVI secolo. Né si sa con certezza - ma è altresì probabile - se sia intervenuto il concorso del feudatario del luogo alla spesa non lieve richiesta dalla costruzione della chiesa e del convento.Certamente deve ritenersi un secondo insediamento quello documentato al 1604, anno nel quale l'università di Ripacandida chiese ed ottenne dal Vescovo di Melfi che la chiesa ed il convento fossero affidati agli Osservanti, che già da due anni, nel Capitolo provinciale di Terlizzi, avevano programmato un nuovo stanziamento a Ripacandida, dopo quello di Melfi, Venosa, Atella e Forenza.L'interesse del monumento si incentra in particolare sulla decorazione affrescata sui pilastri, nei pennacchi, nei lunettoni delle pareti e, a tre livelli, sulla volta. Il ciclo della Genesi ha inizio nella terza campata, sull'asse dell'altare, a cornu evangeli, e si estende a tutta la campata mediana con le storie bibliche fino a quelle di Giuseppe. La prima campata è invece dedicata al Nuovo Testamento, dall'Annunciazione alla Resurrezione.Va subito notato che tra gli affreschi della terza e della seconda campata e quelli della prima vi è un netto stacco di stile e di tempi, oltre che di programmi, e si registra il subentro di almeno un nuovo pittore. Infatti alla rigorosa coerenza delle storie bibliche, per le quali la fedeltà al testo presuppone l'intervento di un chierico sul pittore, ed alla rigorosa spartizione degli spazi, in perfetta simmetria, succede una disorganica distribuzione degli episodi nel ciclo evangelico: sicché la Cena, la Crocifissione e la Resurrezione sono confinate nella parete di retroprospetto e la Pietà è inserita addirittura su una parete della terza campata per lasciare spazio agli inserti di quattro Sibille ed altrettante Virtù e all'appendice dei Novissimi - Inferno e Paradiso - collocati sulle pareti a sinistra e a destra dell'ingresso (1) .La seconda fase dei lavori potrebbe essere stata determinata da un evento sismico, con danni soprattutto alla prima campata. Certo è che ad essa seguì, a completamento, la realizzazione dei freschi sulle pilastrate, con santi francescani per i quali operò un raffinato pittore ben distinto dal livello medio del ciclo cristologico.La decorazione pittorica della chiesa si concluse verso la metà del '700 con ulteriori immagini di Santi francescani (San Diego, San Giacomo della Marca, San Giovanni da Capestrano, San Bernardino da Siena, Santa Agnese e Santa Chiara), presentati anch'essi sui pilastri ma a metà busto ed in finte nicchie con vistose conchiglie per calotta, e con schiere di putti angelici addensati nella fronte dell'arco trionfale.Manomissioni, alterazioni intervenute nel tempo e perdita di immagini per sovrapposizione di altari e lapidi barocche, nonché di una cantoria, hanno decurtato o distrutto interi brani di affresco, soprattutto nelle pareti laterali, ed una di queste, nella campata centrale, ha perduto completamente l'originaria decorazione, mentre sul lato opposto sopravvivono frammentarie le Storie di Sant'Antonio Abate, coeve a quelle della Genesi (2) . L'ultimo scempio, purtroppo sulle vele, si è consumato nel 1953 con un pesante intervento strutturale e successive ridipinture di mascheramento, che un recente restauro ha eliminato mettendo a nudo la vastità delle perdite.La stesura degli affreschi denuncia, quindi, almeno tre successivi interventi di pittori diversi, a prescindere da quello della metà del '700, dovuto al modesto Pietro Di Giampietro da Brienza, attivo sui pilastri e sulla fronte dell'arco trionfale (3) .Ripercorrendo a ritroso le fasi ed i tempi di esecuzione inizieremo dalla serie dei santi francescani che, trovandosi sulle pilastrate della navata, dovette essere realizzata dopo il ciclo biblico e quello cristologico.E la serie include il brano più prestigioso di tutto il corredo pittorico della chiesa: l'Estasi di San Francesco.Il Santo orante ha lo sguardo fisso al Cristo serafino, che dal cielo a braccia aperte e piedi sovrapposti, come in croce, gli appare tutto infuocato nel turbinio delle ali che lo avvolgono come lingue di fuoco. Il rapimento di Francesco è esaltato dal contrappunto dei gesti, dalla posa instabile e dalla specola del saio che si apre quasi a scatto per evidenziare la piaga del costato. La scalatura in profondità dello spazio è scandita da Frate Leone che, estraneo all'evento, è tutto irradiato di fervore mentre medita sul breviario aperto sulle ginocchia, e dalla chiesetta della Porziuncola, che si profila con nitore geometrico nell'ansa di due quinte di rocce di un'arida Verna. La caratura qualitativa del dipinto emerge, tra l'altro, dalla struttura della composizione, bene articolata entro il condizionamento dello spazio disponibile, e dalla naturalezza del trapasso alla quiete dell'estasi dalla prorompente vitalità espressa dall'affondo dei piedi e dalla stazzonatura a terra delle pieghe del saio.Si apparentano al San Francesco in estasi un S. Antonio da Padova ed un probabile San Bonaventura, recanti entrambi per attributo il giglio ed il libro. Si apparentano non solo per l'identità delle aureole dorate e con uguali punzoni e raggiera ma anche per la presenza degli stessi volti smunti, a zigomi alti, sopracciglia allungate, labbra esigue ed orecchie tirate in su.Medesimi caratteri tornano nella figura di un suadente Precursore, confinato anch'esso sulla facciata di un pilastro. Una strana iconografia, inusuale per la provincia, ma consueta nella capitale, lo rappresenta avvolto in un mantello, qui soppannato di rosso, che scende a larghe falde fino a trovarsi con un lembo sotto al piede del santo. Una cascata di pieghe, risvoltate a cannelli, scopre la tunica di pelle caprina, sfilacciata a grossi bioccoli nel suo bordo inferiore. Ed il messaggio di Giovanni, abitualmente affidato al rotulo, qui ridottissimo, è sostituito dal gesto allusivo all'Agnello Mistico, collocato in alto, in miniatura e quasi araldico. L'immagine è tutt'altro che iconica; ha vivacità e naturalezza d'impianto e, nella definizione del panneggio, maggiore dovizia di dettagli di quanto non potesse offrire la castigatezza del saio nei due santi francescani.Infine altri tre santi - Lorenzo, Ludovico e Lucia - si esibiscono su altrettanti pilastri, realizzati con minore impegno e forse affidati ad aiuti, ma su cartone sicuramente del maestro: e qui basti notare, per le raffigurazioni di Lorenzo e Ludovico, la vivacità e la naturalezza delle pieghe increspate sul mattonato del pavimento (4) .Eccetto, forse, che per la Santa Lucia - che ha abito francescano e reca quale attributo, oltre la coppa consueta con gli occhi, lo stilo che ha lasciato la ferita nella gola - la redazione dei santi è riconducibile ad un artista di notevole levatura.Questi, a nostro avviso, è Nicola da Novasiri, un pittore che a Senise nell'antico chiostro dei Minori firma e data nel 1513 un Cristo in Pietà, con nello sfondo i simboli della Passione, affrescato accanto ad un'Eva impudica; e nella chiesa adiacente di San Francesco ha una Vergine con il Bimbo in trono in un'edicola, due Santi nell'intradosso della stessa ed infine, nella sagrestia, un San Bernardino entro un'edicola fantasiosa e tutta gotica (5) .A quella data Nicola risulta decisamente attardato su una cultura provinciale. Nell'affresco con la progenitrice la definizione dell'ambiente, idealizzato da una cortina merlata con sequenza di mensole e beccatelli, ci riporta addirittura a ricordi del "Maestro delle tempere francescane", che dovette lasciare in Basilicata più di un segno oltre il trittico di Colobraro (6) . Nel Cristo in Pietà l'iconografia ha precedenti in Roberto di Oderisi e in Giovanni da Gaeta, per rimanere nell'ambito del reame, e la sequenza delle mensole poste a cornice ricorda soluzioni arcaiche di tipo cavalliniano. Stessa cultura rétro è nel trono gotico della Vergine, nell'edicola del San Bernardino e negli archi a schiena d'asino che includono la Santa Caterina e il Sant'Antonio dell'intradosso. È pur vero che la committenza era orientata a convinzioni e gusto tradizionali, sicché nella stessa chiesa di San Francesco si avrà, nel 1522, il fastoso polittico di Simone da Firenze, con profusione di fondi oro ed una fiammante carpenteria di smaccato timbro gotico fiorito. Ma è anche vero che già nel 1503 era giunto a Calciano uno splendido trittico rinascimentale firmato da Bartolomeo da Pistoia che purtroppo non ebbe eco nell'ambiente lucano.È stato già detto che Nicola esprime una schietta adesione al gotico internazionale con riferimento ai circuiti della Napoli aragonese e rimandi a Giovanni da Gaeta, come a dire ad una congiuntura iberico-fiammingo-marchigiana che fioriva nella capitale ma soprattutto nell'entroterra ai confini con la Basilicata. Raffronti ravvicinati lo legano al "Maestro di Teggiano" (1487), ma soprattutto al "Maestro di Miglionico", che opera appunto a Miglionico (circa 1465) e ancora più a Matera (in Santa Maria de Idris, in San Pietro Caveoso, nella chiesa rupestre della Madonna delle tre porte) (7) . E non può escludersi, inoltre, per lui un'educazione o un esercizio miniatorio, rinvenibile nell'uso calligrafico della linea sottile a capello, ora scritta ora lumeggiata di bianco, che lo caratterizza a Senise.Ma l'affrescatura dei pilastri della chiesa di San Donato a Ripacandida denuncia un momento successivo dell'attività di Nicola da Novasiri, con una data che impegna l'inizio del terzo decennio del secolo XVI. Vi si avvertono, infatti, ulteriori recuperi dalla capitale, filtrati da conoscenze dell'opera di Andrea d'Asti, alias "Maestro dei Penna", e in special modo dal polittico dell'oratorio dei Santi Filippo e Giacomo, dove, tra l'altro, si ritrova nel Precursore quel particolare già notato del lembo del mantello trattenuto sotto il piededestro (8) .Individuare l'autore del ciclo cristologico, intervenuto a coprire vele e pareti della prima campata, non è stato agevole perché è discontinuo e spesso presenta cadute di qualità determinate dalla collaborazione di aiuti modesti.Questi, a nostro parere, è quell'Antonello Palumbo di Chiaromonte sul Sinni il cui nome è apparso solodi recente e casualmente in margine ad un affresco che in San Francesco a Pietrapertosa è rimasto nascosto, sin dal 1628, dalla tela con l'Immacolata di Francesco Guma.Vi è raffigurata una Madonna in Maestà, seduta su un trono marmoreo con alto dossale, absidato e concluso da un catino a conchiglia, affiancata dai Santi Pietro e Paolo entro archetti trilobati dai quali sporgono due angioletti con strumenti della Passione, verso cui si indirizza lo sguardo del Cristo infante. Una decorazione esuberante invade stipiti e mostra dell'arco, orla il manto della Vergine, il cuscino con le nappe, il libro dei due santi. L'esecuzione è affrettata e disinvolta con il consueto ricorso a profilature e rialzi di biacca. La data segnata sull'affresco è il 1498 e la parentela anagrafica di Antonello con Giovanni Palumbo di Chiaromonte, che quattro anni prima firma e data il trittico murale della chiesa del Calvario di Maratea, è confermata dal plagio della nostra immagine da quella analoga di Maratea.Antonello è riconoscibile in un altro affresco, datato 1517, nell'absidiola della cappella dell'Annunziata a Rivello: un'Ascensione in cui angeli con preziose tuniche svolazzanti e maniche a sbuffo circondano e sollevano la mandorla col Cristo in Maestà. L'opera, purtroppo, è scarsamente leggibile, perché in gran parte ancora ricoperta dallo scialbo e pesantemente ritoccata.Ancora un'opera sua era in un'edicola affrescata nella Rocca di Calciano: una Madonna di Loreto fra S. Michele e un santo vescovo e, nella lunetta sovrastante, un Cristo in Pietà contro una dilatata veduta di paese, irto di pinnacoli e campanili, con cinta muraria e porte urbiche. E qui, ad una data che non va oltre il secondo decennio del '500 - per via dell'armatura del San Michele, identica a quella dell'arcangelo del polittico di Simone a San Chirico Raparo - Antonello è in bilico fra il fratello Giovanni, di cui adotta i panni da parata, vermicolati a ramages, come a Maratea, e Nicola da Novasiri, timidamente richiamato nella grafia della linea disegnata e sottesa dai rialzi di biacca visti a Senise.Quest'affresco in passato era stato attribuito come primizia a Giovanni Todisco da Abriola (9) insieme ad una modesta icona murale della Madonna - dichiarata di Costantinopoli, ma in realtà di Loreto - in Santa Maria di Principio a Lavello, che ora riconosciamo ad Antonello. La data, purtroppo, è abrasa, ma andrà collocata dopo l'affresco di Calciano.L'autografia delle opere finora recuperate è affidata soprattutto a taluni idiotismi come l'esuberanza decorativa, intesa ad impreziosire damaschi ed estofadi con bizzarre ed estemporanee invenzioni dell'ornato, con inclinazioni, dunque, dichiaratamente valenzane.Il trapasso dall'icona di Lavello agli affreschi di Ripacandida è quasi immediato, e basta il raffronto con la Giustizia e con il gruppo delle donne della Visitazione a renderlo convincente. Altra verifica può istituirsi fra il San Michele della Rocca di Calciano e la stessa Giustizia di Ripacandida nella definizione della bilancia o nel modo di impugnarla.Gli affreschi di San Donato segnano il momento di maggiore avvicinamento allo stile di Nicola: visi addolciti, vitini da vespa, scioltezza del disegno con marcatura della linea di contorno, resa prospettica, sia pure intuitiva, e ricorso a definizioni di ambiente, quali esterni con case balconate e bifore o interni chiesastici con slanciatissime colonne e pilastri. Il carattere popolaresco investe ambienti e personaggi con rapidi notazioni descrittive. Nella Natività un pastore allieta le pecore col suono della zampogna ed ha il cane in ascolto ai suoi piedi e la botticella con la ciambella del pane appesa all'albero adiacente; nell'Annuncio, dove Gabriele ha ali da rapace ed una tunica che atterra in un mare di pieghe, per rendere più familiare il significato dell'Incarnazione è l'Eterno che plana recando l'offerta del Bambino già cresciuto.Il senso didascalico è sottolineato da scritte in volgare che quando non trovano spazio disponibile scantonano fuori campo. Sono massime di sapienza contadina: "INFERNO NON HABET" ( e, fuori del rotolo) "REDECIO"; oppure "LOMO VOLE ESSERE FORTE COTRA LO DIMONIO", fatto sbordare lungo la cornice adiacente; e, sul rotulo di una "SEBILLA", "VA[DE] RET[RO] SATANAS", col seguito graffito sotto al rotulo. È quasi ovvio ipotizzare che a sua volta Antonello disponesse di aiuti. A loro è affidata la redazione dell'Inferno nella parete destra entrando. Qui si scatena la bizzaria del più esagitato espressionismo popolaresco, con scadimento di qualità ma con notevole estro nel sabba demoniaco intorno alla città di Dite ed abbondanti didascalie per i vari tipi di reprobi. Rimane ora da individuare l'identità del primo maestro, autore delle storie bibliche. Dai più si è ammesso che si tratta certamente di un pittore di estrazione locale, perché si compiace di notazioni tratte da un ambiente a lui familiare e traduce eventi storici in episodi di una quotidianità feriale, con la complicità e la naturalezza di un recitativo di paese (10) .Nel Distacco di Lot da Noè un gregge di pecore è al pascolo ed il pastore, a ridosso di un monticello, dà fiato alla zampogna. In basso un secondo mandriano spinge un gruppo di bovini e di camelidi, reinventati questi ultimi con forme approssimate e fantasiose. Ma la scena che ha colore locale più schietto è nella famigliola del contadino che a piedi sembra tornare dai campi, a sera, tenendo a guinzaglio l'asino, caricato della sua donna con due bambini. Segue un'altra giumenta con in groppa tre fratelli, comandata dalla voce dell'uomo che la segue, mentre un massaro, anch'egli a cavallo, dà ordini ai famigli che l'attorniano. L'episodio del distacco del patriarca dal nipote Lot nell'economia dell'insieme bucolico è quasi un inserto e l'abbraccio affettuoso è argutamente confortato dai due palafrenieri che frenano l'impazienza delle bestie già bardate e scalpitanti.Altre gustose annotazioni, traslate dalla realtà quotidiana o dal mondo contadino, si insinuano nell'austerità del Sacrificio di Abramo. Due servitorelli, seduti sul ripiano della roccia, dopo aver legato l'asino ad un piolo piantato per terra, si contendono la botticella dell'acqua, tolta dalla bisaccia che è accanto.Altrove sono felici carature emotive a caratterizzare la trepidazione di Sara mentre il cieco Abramo benedice Giacobbe, entro il solito cubicolo, oppure la sollecitudine tutta materna della stessa che sull'uscio di casa si congeda dal figlio che fugge mentre Esaù appresta al padre, che ricusa, la nuova pietanza. La Costruzione dell'Arca o della torre di Babele ci documenta sulle fasi di lavoro vuoi di carpenteria che di muratura. E vi sono operai alla ruota dell'argano, capimastri che sovrintendono, fabbricatori che su ponti volanti allineano ed assettano mattoni, mentre arrivano a spalla mastelle di calce che si impasta a piè d'opera.Una fantasia più spiritosa che truce ispira talune scene drammatiche come L'incendio di Sodoma, vulgata in castello angioino: lingue di fuoco esplodono come ciuffi ribelli di parietaria dai giunti delle pietre e il fumo si traduce in lapilli proiettati in cielo al pari di fuochi d'artificio. E così anche L'uccisione di Abele ove, col sangue che schizza dal capo sotto la randellata di Caino, in traiettoria verso l'alto sale al cielo l'animula.Tutto si svolge all'insegna dei buoni sentimenti, con semplicità e naturalezza. Tutto è familiare. Ne Il matrimonio di Giacobbe con Rachele il buon Labano, entro le mura domestiche, congiunge le destre degli sposi, entrambi in abiti feriali. E la Lotta con l'angelo di Giacobbe si traduce in un abbraccio bonario e festoso.Per paradossale nostalgia del passato riappare una scala gerarchica (traduzione in campo profano di quella teologica) con dimensioni riduttive per figure o personaggi minori, ed è un modo per differenziare i ruoli del racconto. Soluzioni altrettanto arcaiche sono quelle scatole cubiche aperte sul davanti a mostrare scene di interni domestici.L'urgenza del racconto spesso ha tono di favola e vi concorre quel paesaggio lunare con rocce silicee a balze seghettate e gli azzimati damerini e le pulzelle ritrose che recitano in abiti aggiornati al '400: le donne con veste lunga ad alto cinto ed uno scialle che avvolge loro il capo come un turbante e scende sul fianco con un lembo o avvolge il collo a mò di soggolo, gli uomini tutti con giubbotto, gonnellino e calzabrache e, per copricapo, zucchetti e berrette o cappucci a becco.La scarna letteratura che finora si è esercitata sull'autore degli affreschi biblici concorda nel ritenerlo di estrazione locale, con educazione miniatoria, formatosi in una cultura tardo odorisiana. Si sono citate per possibili influenze gli affreschi di Sant'Angelo a Rovescanina, riconosciuti a Perinetto da Benevento, ed in più il complesso di Santa Caterina a Galatina che offriva spunti culturali marchigiano-pugliesi-partenopei. E la datazione è stata fissata alla seconda metà del '400 (11) .A noi preme, invece, far notare quanto finora è stato trascurato, e cioè stranissime analogie e puntuali coincidenze istituibili fra l'ignoto autore degli affreschi dell'Antico Testamento e le opere di Nicola da Novasiri.La maschera facciale di Caino nella scena del Rimprovero dell'Eterno è sovrapponibile al San Francesco in Estasi. La roccia che nella stessa scena si avvita in alto, sfaldata ed a ripiani, la si ritrova identica nell'Estasi. Le aureole dorate dell'Eterno, degli angeli e dei patriarchi sono simili nei punzoni e nelle raggiere a quelle dei santi francescani e dello stesso San Francesco. L'ampia caduta del manto nell'Eterno ed in Giacobbe che redarguisce il piccolo Giuseppe, dopo il sogno dei covoni, ha eleganze e finezza quasi senesi e le stesse cadenze con altrettanto decoro si ritrovano nel comporsi mollemente a terra delle pieghe del saio di San Francesco e delle tonacelle di San Lorenzo e San Ludovico. Per quest'ultimo la morbida matassa dei capelli richiama le capelliere a damerino dei parenti di Noè, che attendono di entrare nell'Arca.Ancora comune è il ricorso agli stampini, al decoro cosmatesco, alla cerchiatura di scuro che profila le immagini per aiutarne lo stacco dal fondo. Infine fa testo la squadratura geometrica e metafisica degli edifici.Tutto ciò non può considerarsi casuale. Si aggiunga che Antonello, di cui è chiara la devozione a Nicola, nella sua fase di intervento, nella prima campata, riprende le medesime scheggiature delle rocce, ripete la stessa figura dello zampognaro nella scena del Presepe e lo stesso tipo di albero ad infiorescenza. Ed è credibile che lo faccia non per simulare una continuità ideale col maestro della Genesi quanto, invece, per dipendenza dal suo maestro.Queste considerazioni convergono sull'ipotesi che l'affreschista del Vecchio Testamento sia,intorno al 1506, lo stesso Nicola da Novasiri in una fase iniziale della sua carriera. L'interruzione del ciclo biblico, da addebitarsi probabilmente a trauma sismico, avrebbe determinato l'intervento di Antonello, individuabile nel ciclo cristologico, tra il primo ed il secondo decennio del secolo. Con il successivo ritorno di Nicola, all'inizio del terzo decennio, si sarebbe infine affrescata sui pilastri la serie dei santi francescani.Note1 L'Inferno e il Paradiso, tradizionalmente inclusi nel tema del Giudizio, venivano rappresentati di norma sulla parete di retroprospetto. Qui invece la raffigurazione è sdoppiata sulle due pareti della prima campata. Inoltre l'iconografia del Paradiso, espresso come un castello con balze merlate, ha richiami all'affresco, databile al 1431-35, nella chiesa dell'Annunziata di S. Agata dei Goti (Navarro 1987, fig. 630).2 L'introduzione di episodi della vita di S. Antonio abate, santo per altro assai caro al mondo agro-pastorale, e più ancora di immagini a metà busto, sui pilastri, dei Santi anacoreti Paolo ed Onofrio, potrebbe essere in relazione con lo stanziamento di colonie di Albanesi ortodossi, avvenuto a Ripacandida, Ginestra, Maschito e Barile, a partire dal 1478, data della conquista ottomana dell'Albania. E il rito greco in queste terre durò fino al 1627 (Gentile 1975, p. 73). 3 Pietro di Giampietro, nato a Brienza nel 1709, è noto soprattutto per i freschi del chiostro e per la decorazione del plafone della chiesa di S. Francesco in San Martino d'Agri, firmati e datati al 1743-44 (Convenuto 1988, pp. 212-215). È fratello minore di Leonardo di Giampietro, pittore che nel 1727 firma sempre a Brienza una Deposizione nell'ex convento dell'Annunziata ed altri affreschi nella chiesa di S. Maria degli Angeli. Pietro di Giampietro nella sua città natale affresca nel 1740, nel chiostro dell'ex convento dell'Annunziata, una Immacolata e Storie di S. Francesco ed Antonio, e nel 1750, nella chiesa di S. Giuseppe, Storie del Santo e della vita di Cristo. Sono inoltre suoi quattro sportelli d'organo con i Santi Pietro, Paolo, Andrea e Giovanni ed un dipinto su tela raffigurante una Madonna col Bambino ed i Santi Bernardino e Benedetto da Palermo (Volpe 1987, pp. 55-56). A Laurenzana, nella chiesa parrocchiale, realizza un polittico murale e decora il soffitto con Evangelisti e Dottori della Chiesa. A Cirigliano, nella cappella Formica, dipinge la Via Crucis.4 Nuccia Barbone Pugliese (1988, pp. 194-195) assegna allo stesso autore del S. Lorenzo, oltre il S. Ludovico da Tolosa, una frammentaria Pietà, tipo wesperbild, ed un S. Francesco che consegna la Regola, egualmente frammentato. Il S. Lorenzo ha ai suoi piedi un offerente, per cui l'affresco è da considerarsi un ex voto e perciò estraneo alla sequenza dei Santi dell'Ordine.5 Grelle Iusco 1981, pp. 57 e 64.6 Per il trittico di Colobraro si veda Grelle Iusco, op. cit., p. 39. Allo stesso "Maestro", Leone de Castris (1986, p. 421 n. 36) attribuisce un lacerto di affresco nella cripta di S. Lucia alle Malve, a Matera.7 Per il "Maestro della Pietà di Teggiano" si vedano Restaino 1989, pp. 48-49 e Abbate 1998, pp.175-176. Per il "Maestro di Miglionico": Grelle Iusco, op. cit., pp. 169-171.8 Per il "Maestro dei Penna" si veda Bologna 1969, pp. 349 e fig. VIII-20-22 e Abbate op. cit., pp.145-147.9 Grelle Iusco, op. cit., p. 83. Alla data di edizione di Arte in Basilicata la personalità di Antonello Palumbo era completamente sconosciuta: il che spiega l'assegnazione dell'opera a Giovanni Todisco da Abriola, che si educa all'ombra di Nicola da Novasiri. La Madonna col Bambino tra S. Giovanni Battista e l'Evangelista della chiesa del Convento di Petrapertosa, già assegnata al Todisco, va restituita a Nicola.10 Grelle Iusco, op. cit., pp. 57-58, Barbone Pugliese, op. cit., pag.195, Navarro, op. cit., p. 470.11 I rimandi agli affreschi di S. Angelo a Rovescanina ed a quelli di Galatina sono in Barbone Pugliese, op. cit., p. 195. La datazione è stata riferita da questa studiosa ed in precedenza dalla Grelle Iusco (op. cit., p. 58) alla seconda metà del sec. XV per la presenza fra gli affreschi di un'immagine, creduta di S. Bernardino, canonizzato nel 1450. Il Santo in questione è invece un domenicano, forse S. Vincenzo Ferrer, il cui culto era assai caro alla corte di Napoli ed alla causa spagnola.
Bibliografia
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Testo di Clara Gelao tratto da "BASILICATA REGIONE Notizie, 1999
Testo di Clara Gelao tratto da "BASILICATA REGIONE Notizie, 1999