Storia di una
comunità in fuga accolti in un paese della Basilicata.
Tratto dalla pubblicazione:
Nell’ottobre del 2000 il Ministero dell’Interno sigla un Protocollo d’Intesa con l'UNHCR , Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, e l'ANCI, Associazione Nazionale Comuni Italiani, per l'attuazione di politiche innovative in materia d'asilo e la costituzione di una rete diffusa di accoglienza in favore dei richiedenti asilo, nonché per la promozione di interventi di sostegno e di integrazione in favore dei rifugiati e di supporto al rimpatrio volontario e assistito, denominato Programma Nazionale d’Asilo (PNA).
Il Programma Nazionale
Asilo cercò di sopperire alla mancanza
di una legge organica in materia di asilo e di protezione umanitaria,
all’assenza di un sistema nazionale d'accoglienza e di adeguarsi alla Decisione
del Consiglio dell’Unione Europea[1]
che istituì il Fondo Europeo per i Rifugiati (FER) per sostenere gli stati
membri in azioni e interventi in materia.
Il PNA prevedeva tre
obiettivi principali: la costituzione di una rete diffusa di servizi di
accoglienza per richiedenti asilo, persone con permesso di soggiorno per motivi
umanitari o per protezione temporanea, e rifugiati; la promozione di misure
specifiche dirette a favorire l’integrazione sociale di rifugiati riconosciuti
e di beneficiari di protezione umanitaria; la predisposizione di percorsi di
rimpatrio volontario e reinserimento nei paesi d'origine, con il coinvolgimento
della Organizzazione Internazionale per le Migrazioni.
Dopo qualche mese apparve sulla Gazzetta Ufficiale un invito pubblico rivolto ai comuni a
presentare proposte per il finanziamento di progetti di accoglienza[2]:
vennero presentati 137 progetti. I progetti giudicati ammissibili furono 114 e
in base alle risorse disponibili ne vennero finanziati 63 che divennero 59 a
seguito di 4 rinunce per una capacità di accoglienza di 1734 posti, spalmati su
195 strutture.
Tutti i progetti
finanziati prevedevano, oltre a vitto e alloggio, anche attività di
informazione sulla procedura di asilo, assistenza nelle pratiche burocratiche e
accesso ai servizi sociali quali iscrizione al Servizio Sanitario Nazionale e
alle scuole dell’obbligo per i minori.
Tra i 59 progetti
finanziati c’era anche quello di un piccolo comune lucano: Rotondella, borgo del
materano che si affaccia sul mar Jonio e che contava una popolazione di poco
superiore ai 3200 abitanti.
In questa piccola comunità il 13 luglio 2001 giunsero 38 rifugiati di etnia curda[3], rifugiatisi in Italia e ammessi al Programma Nazionale di Asilo.
Fuggivano dai
loro luoghi d’origine per scampare alle persecuzioni etniche perpetrate dai governi
turco, iracheno e iraniano.
Il gruppo dei curdi giunto a Rotondella era variegato ed era composto da 17 adulti e 21 minorenni e suddivisi tra nuclei familiari (7) e individui singoli (4).
Il loro arrivo suscitò atteggiamenti
diversi nella comunità, divisa tra chi si apprestava a offrire accoglienza e
trattamento familiare e chi si poneva domande e alimentava dubbi. Un cronista
locale evidenzia i timori diffusi nella popolazione: “Quando, nel 2001, i curdi arrivarono a Rotondella, non mancò tra gli
abitanti del posto una vena di scetticismo e di timore. Il solo nome “rifugiati
politici” bastava ad incuterla. Chi erano veramente? Che passato avevano? Per
quanto tempo sarebbero rimasti?”[4]
Il PNA prevedeva, però, figure di supporto che avrebbero permesso ai rifugiati e alla comunità di accoglienza di coesistere ed integrarsi. Mediatori culturali, psicologi e la presenza continua dell’amministrazione comunale fecero in modo che le diversità culturali non creassero barriere ma che ci fosse un continuo scambio di esperienze culturali.
“Quando i 40 beneficiari del Programma Nazionale di Asilo giunsero a Rotondella ci stupimmo della richiesta di profumi, anziché di cibo, e considerammo con sufficienza quella richiesta, seppur poi soddisfatta. Abbiamo imparato solo in questi giorni, attraverso la ricerca, come i profumi siano parte della preghiera e quindi, un fatto di spiritualità e cultura. Così come non avevamo compreso la resistenza a frequentare i corsi scolastici nei mesi invernali. Oggi sappiamo che il tempo della scuola va dalla primavera in autunno.”[5]
Nel settembre del 2001, alla riapertura delle scuole tutti i ragazzi curdi in età scolare vennero iscritti al ciclo scolastico, ripartiti tra scuola media (3 iscritti), scuola elementare (13 iscritti), scuola materna (2 iscritti) per un totale di 18 scolari.
Alcuni di questi non si
sono fermati alla scuola dell’obbligo ma hanno continuato gli studi
iscrivendosi alle scuole superiori e qualcuno ha proseguito il percorso fino
all’università.
In uno studio
pubblicato nel 2004 risulta che il processo di integrazione e convivenza era
già positivo. Emerge, infatti, che nella cittadinanza, i timori iniziali di
rischio e problematicità legati alla presenza degli stranieri era pressoché
assente e non risultava “…tra i problemi
che il comune dovrebbe risolvere” [6].
ERDOGMUS E ELCIK VINCONO IL TORNEO ORGANIZZATO DALLA BOCCIOFILA (Rotondella luglio 2016) |
“…E’
bello, però, poter incontrare per le strade di Rotondella ragazzi che parlano
un perfetto italiano, studiano con gli italiani, si coinvolgono nelle attività
sportive e associazionistiche del territorio. E’ bello accorgersi della diversa
etnia solo dal suono del loro nome…”[8].
Il Rotunda Maris, squadra di calcio che milita in promozione ha tra i suoi protagonisti anche un giocatore curdo.
Il Rotunda Maris, squadra di calcio che milita in promozione ha tra i suoi protagonisti anche un giocatore curdo.
Alcuni hanno acquisito
la cittadinanza italiana. Abdulmecit Elcik, nel marzo del 2010 presso il comune
di Rotondella a seguito del decreto di concessione della cittadinanza a firma
del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, è stato il primo a giurare
sulla Costituzione Italiana.
Da quel 22 marzo altri 9 curdi hanno ottenuto la
cittadinanza italiana.
Dell’originario gruppo
di 38 curdi, alcuni si sono spostati verso altri luoghi per motivi di lavoro o
per ricongiungersi ai familiari. Altri hanno deciso di rimanere facendosi
raggiungere dai propri cari. Oggi la comunità curda di Rotondella conta 21
persone diverse per età e per professione. All’ufficio anagrafe del comune
risultano: 1 avvocato, 1 ragioniere, 1 elettrotecnico, 3 operai, 3 casalinghe,
1 pensionato a cui si aggiungono 10 studenti e un infante.[9]
Da aggiungere che la
comunità curda, a Rotondella, non è la sola comunità di stranieri presente e
nemmeno la più numerosa.
In una popolazione di 2702 abitanti, i curdi risultano essere la terza comunità numerica tra gli stranieri residenti 2015[10] che conta 109 albanesi, 62 rumeni, 21 curdi, 4 indiani, 2 polacchi, un ucraino.
Il processo di integrazione ha visto il realizzarsi di una realtà multietnica in cui la comunità rotondellese è stata protagonista.
In una popolazione di 2702 abitanti, i curdi risultano essere la terza comunità numerica tra gli stranieri residenti 2015[10] che conta 109 albanesi, 62 rumeni, 21 curdi, 4 indiani, 2 polacchi, un ucraino.
Il processo di integrazione ha visto il realizzarsi di una realtà multietnica in cui la comunità rotondellese è stata protagonista.
Il
racconto di Ghidrani[11]
Ghidrani[gc1] inizia la descrizione del suo
viaggio partendo dalla separazione da suo marito Tais, nella città di Mosul[12]. Qui
il marito aveva lavorato come camionista per gli americani impegnati nella
guerra del Golfo[13]
e quindi era costretto a fuggire. Tais aveva lasciato la famiglia e si era
diretto verso il confine con la Turchia, a Zakho, in territorio iracheno, dove
era stato ospitato a casa di un fratello e dove, presto, lo avevano raggiunto
la moglie e i cinque figli. Rimasti ospiti per 5 mesi avevano iniziato anche la
ricerca di un trafficante per poter fuggire in un paese straniero. Dopo alcune
ricerche riuscirono ad avere l’informazione necessaria e la sicurezza che
sarebbero stai portati in Turchia. Avevano 3000 dollari in tutto e arrivarono
ad Istanbul. Lì, Tais contattò un amico che li ospitò per un mese nella sua
casa e ricominciò la ricerca di un nuovo trafficante che li conducesse, questa
volta, in Italia. L’impresa non si rivelò facile ma, alla fine, Tais riuscì ad
ottenere un nuovo nome, lo contattò e organizzò il viaggio per se e tre dei
suoi figli: 2 maschi- Said e Rohad- rispettivamente di tredici e quattordici
anni e Sulamy una bambina di otto anni. A questo proposito Ghidrani ci spiega
perché il resto della famiglia non lo aveva seguito. La figlia maggiore, kalim,
si era sposata con il figlio dell’amico che li aveva ospitati in casa e,
quindi, non poteva partire. La stessa Ghidrani non aveva seguito il marito
perché incinta e con un altro bambino di soli due anni. Vicino alle coste
greche il viaggio di Tais e dei suoi figli fu interrotto, le autorità turche li
rimandarono indietro e Tais fu arrestato e messo in prigione. Trascorsi 10
giorni, Tais, i suoi figli e altri prigionieri furono caricati su di un camion
e rimandati in Iraq. Durante il viaggio
il figlio maggiore tentò di crearsi un’occasione per la fuga. Chiese
all’autista di fermarsi un attimo per bere. Questi accettò e Said,
approfittando della sosta, fuggì. A non farcela però fu proprio Tais che,
invece, fu nuovamente catturato e picchiato, riuscì a salvarsi soltanto
offrendo 2000 dollari ai suoi carcerieri per raggiungere i suoi figli.
Riunitisi, cercarono una macchina e tornarono ad Istanbul per ricongiungersi al
resto della famiglia. Tais non poteva rimanere lì ma, allo stesso tempo, si
rendeva conto che non aveva senso dividere la famiglia. I pericoli erano tanti
ma il rischio di perdersi era ancora maggiore, quindi, suggerì di prepararsi a
partire tutti insieme. Questa volta la ricerca del trafficante fu più semplice.
Il racconto di Ghidrani si fa sempre più preciso: alle 7 del mattino lasciarono
la casa che li ospitava, salirono su una affollatissimo autobus insieme ad una
cinquantina di persone e iniziarono il loro viaggio, senza soste, verso Azmir.
Il camion si fermò in una foresta dove scesero uno alla volta, in silenzio, per
evitare che i militari potessero accorgersi di loro. Allo scoccare della
mezzanotte tutti insieme (più di 600 persone) furono fatti avviare verso il
mare, dopo circa mezz’ora di marcia, videro dei
camion sui quali furono
nuovamente caricati ed ammassati. Ghidrani, infatti, precisa che su ogni camion
potevano starci al massimo cinquanta persone mentre loro erano in 100 e ci
ricorda che essendo incinta le faceva molto male avere addosso il peso di
altri.
Continua
a raccontare ciò che accadeva a coloro che si rifiutavano di salire: “i trafficanti
ci colpivano con un bastone ci spingevano dentro con la forza”. Dopo che il
camion era stato ricoperto con un telone potettero partire. Proseguirono per
due ore sul camion stracarico, fino a quando giunsero in un’altra foresta dove
li fecero scendere di nuovamente e li costrinsero a continuare a piedi per
un’altra ora. Raggiunta la costa, i trafficanti ordinarono a ciascuna famiglia
di prendere una ciotola e di mettersi in silenzio ad aspettare. Tais, pur non
sapendo cosa ci fosse la prese e insieme al resto della famiglia aspettò
l’arrivo della nave. Inizia così una nuova fase del loro viaggio. Ghidrani
racconta di come li fecero salire, uno alla volta, sulla nave. Inizia così una
nuova fase del loro viaggio. Ghidrani racconta di come li fecero salire uno
alla volta sulla nave. Lì si ritrovarono sfiniti, affamati e assetati. “Eravamo
così mal ridotti che quasi tutti siamo caduti nel sonno per la stanchezza; ci
siamo svegliati solo verso le 11.00 con un sole che brillava alto nel cielo e
con urla della gente che manifestava la propria gioia per essersi liberata
della Turchia”. Passata la stanchezza, ricomparve però la fame. Non gli era
stato permesso di comprare nulla a terra, dietro la rassicurazione che
avrebbero trovato tutto sulla nave. Qui, invece, l’unica cosa di cui potevano
disporre erano grosse botti contenenti delle olive salatissime e del formaggio
altrettanto salato. Tais allora finalmente la ciotola che aveva preso prima di
partire e scoprì che conteneva solo un po’ di pane secco e sporco. La fame era
tantissima: Tais, allora, decise di assaggiarlo comunque ma dopo pochissimo
tempo cominciò a stare male e a vomitare. Cadde a terra privo di forze.
Ghidrani, invece, cercava di allattare la sua bambina. Ghidrani si sofferma
sulle condizioni del viaggio e ci spiega come fossero veramente estreme; circa
seicentocinquanta persone ammassate sulla nave: i giovani in piedi, mentre le
donne a terra con addosso quattro/ cinque bambini. Il pavimento era sporchissimo. A causa del
forte ondeggiare della nave, molti vomitavano e l’aria era irrespirabile anche
perché le finestre della nave erano chiuse e non potevano essere aperte. A metà
strada, però, per l’irrespirabilità dell’aria decisero di rompere alcune
finestre e Ghidrani ricorda di aver visto un mare scurissimo e persino dei
delfini ma nuovi problemi stavano sopraggiungendo. “Le onde altissime, più
della nave stessa, la facevano inclinare sin quasi a toccare il mare; dalle
finestre rotte entrava acqua e una falla si stava aprendo”. La nave rischiava
di affondare e, con le lacrime agli occhi, ci racconta di uno dei trafficanti
che, piangendo, disse loro: “è finita, non ci sono più speranze”. Quindi sette
trafficanti, armati di pistola, li chiusero nella stiva dove rimasero per sette
giorni senza mangiare e senza bere con l’acqua che raggiungeva le ginocchia. Due
donne non ce la fecero e morirono. I banditi le gettarono in mare per liberarsi
dei corpi. Quando fu chiesto loro cosa
avessero buttato via, risposero semplicemente che si trattava di cibo andato a
male. Dopo tante sofferenze, finalmente la scoperta di essere giunti in acque
italiane. I trafficanti, chiamata la polizia, abbandonarono la nave
imbarcandosi su una che li seguiva e li lasciarono in balia delle onde.
Vagarono per quattro ore senza sapere dove stessero andando e quando sembrava
che non ci fossero più speranze, incrociarono una nave da crociera. In massa si
raggrupparono sul ponte e con tutto il fiato rimasto in gola chiesero aiuto. La
nave, fermatasi, cercò di soddisfare le
richieste di cibo e
acqua e, dopo aver contattato la polizia segnalando la loro posizione, proseguì
il viaggio. Alle quattro del mattino le autorità italiane giunsero sul posto e
si attivarono per i soccorsi. Ghidrani era, però, ormai priva di sensi e
insieme ad altre quattro donne fu portata via. Solo dopo quattro ore si risvegliò
su di un lettino. Non sapeva ancora dove si trovasse. Si guardò intorno e la
prima cosa che vide fu il corpo senza vita di una donna marocchina. Trascorsi
quattro giorni in ospedale raggiunse la sua famiglia nel campo di prima
accoglienza di Crotone. Dopo un giorno di permanenza in questo campo fu
trasferita, insieme alla sua famiglia e ad altri profughi, in quello di Borgo
Mezzanone (Foggia), dove rimase per tredici giorni prima di essere condotta a
Rotondella con altre quaranta persone. A questo punto Ghidrani, con un
dolcissimo sorriso, conclude il suo racconto con una frase tipica delle favole:
“è finita la storia”. Noi le chiediamo ancora quando avevano pagato per il
viaggio e lei continua: “settecento dollari, duecento a persona per adulti mentre
i bambini hanno avuto uno sconto”. Questa nostra domanda la fa ritornare al
viaggio e riprende:” mille volte ho pregato che ci prendessero piuttosto che
morire in mare. È stato terribile, solo Dio era con noi e ciascuno pregava il
proprio. Nessuno può immaginare cosa abbiamo passato e se non fossero arrivate
le autorità italiane a soccorrerci saremmo morti tutti”. Poi precisa: “mio
marito è stato l’ultimo a scendere poi la nave è calata giù a picco”.
Ghidrani
manifesta tutta la sua riconoscenza per la gente italiana e per i rotondellesi
in particolare. Afferma che: “neanche l’anima può bastare per ringraziare gli
italiani per quanto hanno fatto per noi”. “Io - continua indicando la piccola
nata in Italia- avrei tanto voluto chiamare mia figlia Italia ma, il medico me
lo ha sconsigliato, così ho deciso di chiamarla Maria”. Poi, con voce ferma e
decisa rimprovera quanti sono ingrati e si lamentano senza ragione: “se io
potessi comandare sui profughi, saprei come guarirli: li rimanderei indietro
con la stessa nave, la stessa fame e le stesse sofferenze del viaggio. Solo
così potrebbero capire cosa significa e cosa vuol dire essere qui, loro non
sono profughi e non sanno cos’è la guerra.” Per chiarirci ulteriormente questo
punto Ghidrani spiega che i Curdi scappano esclusivamente dalla guerra, non
dalla miseria e dice che in Iraq non dovevano pagare l’acqua, l’elettricità, i
viveri, ma solo l’abbigliamento; e avevano un lavoro. Lei, ad esempio, lavorava
come infermiera e ha smesso solo per accudire i figli. Le cose sono cambiate
quando Saddam ha iniziato a bombardare le loro case. “Noi abbiamo visto la
morte quando Saddam Hussein ci ha bombardato; e non potrò mai dimenticare le
immagini della gente a pezzettini”. Qui Ghidrani ritorna di nuovo indietro nel
tempo, al 1988 a quando Saddam lanciò le bombe chimiche sulle loro teste[14].
Racconta
che abbandonarono la loro casa e si diressero verso il confine turco, dove si
rifugiarono ma senza consegnarsi alle autorità. Per poter sopravvivere Tais,
suo marito, prima si procurò un asino e poi, ogni notte, andava a prendere del
cibo. Continuarono così per quindici giorni. Tornati al villaggio, trovarono
più di mille e duecento cadaveri: uomini, donne, bambini e anziani; tanto che,
per arrivare alla porta della propria casa, furono costretti a camminarci sopra
Non riuscendo ad intravedere altra possibilità di salvezza, e in parte
rassicurati dalla promessa che quanti si arrendevano non avrebbero corso pericolo,
decisero di arrendersi a Saddam. Tais, allora, cominciò a lavorare come
autista. Nel 1991 comprò un camion e continuò il suo lavoro in autonomia. Nello
stesso anno, però, i bombardamenti di Saddam ricominciarono, i carri armati
entrarono nei villaggi e gli aerei iniziarono a sorvolare incessantemente i
cieli. Ghidrani che il 15 del mese del Ramàdan[15],
mentre lei preparava la cena che conclude il digiuno e attendeva il ritorno del
marito, sentì delle forti esplosioni; uscì sulla porta tenendo per mano il
figlio di due anni malato di cuore e vide la gente in fuga. Spaventata chiese
dove stessero andando e come unica risposta udì le seguente parole: “Non senti?
Forse Saddam è venuto!” Ghidrani non sapeva cosa fare, il marito non era ancora
ancora tornato e i bambini la pregavano di scappare. La decisione gliela
suggerirono gli eventi: una bomba cadde sulla casa dei vicini, la padrona di
casa fu colpita in pieno e i pezzi della sua carne si sparsero dappertutto. “Alla
vista di quella scena presi i miei bambini e scappai, arrivai fino alla casa
della mamma di Tais dove, dopo poco arrivò anche lui in macchina”. A questo
punto il racconta di Ghidrani si arricchisce di particolari sempre più atroci: mentre
stavano salendo in macchina, un’altra bomba cadde poco distante da loro e ferì
al braccio la mamma di Tais. Cercarono di tamponare il sangue e si diressero
verso il vicino villaggio dove ricevettero le cure necessarie. Nel villaggio si
ritrovarono con alcuni familiari, altre cinquanta persone, e si avviarono verso
il confine turco. Camminarono a piedi nudi sulla neve per 15 giorni, fermandosi
solo per dormire. Ogni tanto incontravano qualcuno che dava loro qualcosa da
mangiare. Tais e i suoi fratelli avevano preso un po’ di soldi e con quelli
riuscirono a procurarsi del cibo. Ghidrani vendette, per un pacco di biscotti
per il suo bambino, l’unica collanina d’oro che possedeva. Rimasero dieci
giorni sul confine turco, in mezzo alla neve, senza acqua ne cibo. Ghidrani
ricorda che il cielo era nero e piovevano detriti dello stesso colore;
riscaldavano la neve per procurarsi l’acqua che aveva, però, lo stesso colore
del cielo. Le estreme condizioni di vita e l’assenza di medicine avevano
duramente provato il figlio, malato di cuore che non riuscì a superare quei
disagi. Lo seppellirono sotto la neve, in silenzio, con lo strazio nel cuore; Ghidrani
rimase vicino al corpicino di suo figlio fino a quando la costrinsero a
ripartire. Rimanere ancora lì sarebbe stato pericolo per tutti. Con timore si
avvicinarono al confine iracheno dove le autorità gli offrirono della farina e
dei viveri con i quali potettero dirigersi nuovamente a casa. Della casa non
trovarono che le mura. “Quella notte dormimmo sul pavimento”. Per assicurare il
sostentamento alla propria famiglia Tais cominciò a lavorare e, sentito che le
forze dell’ONU stavano arrivando pensò che
fosse una buona occasione per lavorare con gli americani. La famigli si spostò
a Mosul dove Tais lavorò per l’ONU riuscendo anche a comprare una casa. Con il
passare del tempo Tais cominciò, però, ad avere sempre più paura che la gente
del posto potesse denunciarlo al governo iracheno e decise di licenziarsi. Dopo
due mesi dalle dimissioni, gli amici gli comunicarono che era stato segnalato e
che doveva scappare al più presto. Saddam aveva dato ordine di uccidere tutti
coloro che avevano lavorato per gli americani. A questo punto il racconto di
Ghidrani ritorna ai suoi primi pensieri, non senza ribadire il suo stupore e
l’incomprensione verso coloro che hanno il coraggio di lamentarsi di non essere
riconoscenti e conclude dicendo “loro non hanno visto la guerra”. Le chiediamo
dei familiari rimasti in Kurdistan e cosa ne è stato delle loro proprietà e
della loro casa. Ci risponde che la casa, così come le proprietà e il camion di
Tais, sono stati confiscati dal governo iracheno, mentre per quanto riguarda i
suoi familiari ci spiega che li vive, tra gli altri sua figlia Faidran sposata
e madre di un bambino. Faidran non può lasciare
il Kurdistan perché non
ha i soldi per il viaggio. Con grande nostalgia Ghidrani ci confessa vorrebbe
poterla riabbracciare e averla con sé in Italia. Oggi, questo, è per lei il
sogno più grande.
La Storia di Rasha[16]
Rahsa
è l’attuale marito di nome Said, entrambi iracheni, prima di conoscersi
abitavano in paesi diversi. Rahsa viveva a Sulaymàniyah mentre il suo compagno
a Carcuc: la loro conoscenza ed il loro innamoramento avvenne per caso. Rahsa,
accompagnata da sua madre, si sera recata a Carcuc per fare spese. L’autista el
taxi con cui viaggiavano aera Said. Fu allora che si videro per la prima volta;
a Said piacque Rahsa e, dopo un breve periodo di conoscenza, chiese consenso al
padre della ragazza per contrarre il matrimonio. Il padre accettò la proposta e
si sposarono nel 1980. Dopo il matrimonio nacquero due bambini e la vita
trascorse regolarmente. Ma un giorno la polizia di Saddam Hussein ordinò a Said
di far esplodere delle bombe nel Kurdistan. Said contrario a tutto ciò, e non
condividendo questo atteggiamento di distruzione e morte, si oppose; per questo
motivo fu arrestato e condotto i prigione. Anche Rahsa e i suoi bambini
finirono in carcere solo perché curdi e familiari di Said. La loro prigionia,
però, fu breve: durò solo quindici giorni, mentre Said rimaneva in carcere.
Usciti dalla prigione, Rahsa e i suoi figli andarono a vivere in Iraq dove si
trovava il padre della donna. Qui abitarono per sei lunghi anni, senza Said,
finché un giorno maturarono la decisione in cerca di una vita migliore e più
tranquilla. Così, dall’Iraq si recarono in Turchia. Per la fuga dovettero
pagare una consistente somma di denaro, che con l’aiuto del padre di Rahsa
riuscirono ad accumulare. Il viaggio fu lungo ed estenuante: le condizioni
igieniche pessime, i bambini piangevano per la stanchezza e la fame. In
quantità limitate fu distribuito loro del latte per evitare che morissero. Al
termine del viaggio sbarcarono in Calabria, vennero condotti successivamente a
Borgo Mezzanone e infine inseriti nel Programma Nazionale Asilo e trasferiti a
Rotondella.
Qui, tramite telefonate di amici e parenti, Rahsa apprese la
notizia dell’evasione del marito dal carcere. La famiglia si è riunita a
Rotondella dopo oltre sei anni di lontananza.
Il marito ha trovato lavoro e i
figli vanno a scuola.
Tratto dalla pubblicazione:
Sito: IRES Basilicata
[1] 2000/596/CE: Decisione del Consiglio, del 28 settembre 2000.
[2] Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana - Serie
Generale – “Estratti Sunti e Comunicati”, del 20 marzo 2001.
[3] I curdi sono una popolazione indoeuropea che vive nella regione chiamata
Kurdistan suddivisa fra Turchia, Iran, Iraq, Siria e Repubblica di
Armenia. La consistenza numerica dei Curdi è di difficile
valutazione per la mancanza di dati attendibili ma si stima si aggiri intorno
ai 30 milioni di persone. La religione predominante è musulmana di rito
sunnita. (NdR)
[4] P. Suriano, Il
primo curdo rotondellese in Il
Quotidiano della Basilicata, 23 marzo 2010, pag. 40
[5] V. Palmieri (a cura di), K come Kurdistan, ed. Grafiche Paternoster 2002, Matera, pag. 11
[6] C. Persiani, L’Atlantide
Radioattiva, storie di
comunità e di scienze nelle terre del silenzio, Consiglio
Regionale della Basilicata, Potenza, 2004.
[7] Da una indagine sul luogo
effettuata a Rotondella nel marzo del 2015, durante la quale è stato possibile
raccogliere alcune le testimonianze
[8] P. Suriano, cit.
[9] Ufficio
anagrafe Comune di Rotondella, marzo 2015.
[10] Ufficio anagrafe
Comune di Rotondella, marzo 2015
[11] Fonte orale G. del 13/03/2002 in K come
Kurdistan, V. Palmieri (a cura di), cit., pp. 111-118. Brano integrale.
[12] Città
dell'Iraq, capoluogo del governatorato di Ninawa.
[13] Agosto 1990 –febbraio 1991
[14] Tra il 16 e il 18 marzo del 1988 l'aviazione irachena bombardò a più
riprese la città di Halabja e dintorni con gas nervini. Gli ottantamila
abitanti della città, vicina ai confini con l'Iran, non ebbero alcun modo di
ripararsi dai gas quali l'iprite, gas nervino, sarin, tabun e probabilmente
anche cianuro. Almeno 5.000 persone sono morte in poche ore. Altre 7.000
persone hanno riportato ferite e lesioni tali da morirne in seguito oppure da
riportarne danni permanenti quali paralisi, malattie della pelle, tumori,
aborti spontanei, danni ai polmoni. L'attacco alla città di Halabja del 1988 è
considerato il maggiore massacro con gas nervini compiuto dalla fine della
Seconda Guerra Mondiale in poi. Già nell'aprile del 1987 l'APM (ass. Popoli
Minacciati) aveva iniziato a informare degli attacchi con gas nervini a
complessivamente 87 villaggi kurdi delle regioni montane dell'Iraq
settentrionale. Molti dei sopravvissuti agli attacchi sono stati uccisi subito
dopo oppure deportati verso l'interno del paese. Nelle province di Erbil, Suleimaniya,
Dohuk, Kirkuk, Diala e Mosul migliaia di persone sono state deportate nei
deserti dell'Iraq meridionale o in campi di concentramento appositamente
istituiti mentre altre migliaia di persone sono state fucilate. Questa politica
della terra bruciata, che ormai Il genocidio conosciuto con il nome di
Offensiva Anfalm ha causato complessivamente 180.000 vittime nel Kurdistan
iracheno.
Fonte:
Associazione per i Popoli Minacciati http://www.gfbv.it/
[15]
Il Ramàdan è il periodo
nel quale si pratica il digiuno. È il nono mese dell'anno del calendario
musulmano e ha una durata di 29 o 30 giorni. Nel 1991 il Ramàdan cadde nei
giorni tra il 17 marzo e il 15 aprile del calendario gregoriano.
[16]
Fonte orale Rasha, V. Palmieri (a cura di), cit., pp.
118-119. Brano integrale.