17 mag 2010

S. Antonio Abate fra religione e arte

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di Angelo Lucano Larotonda
L’UOMO - Si era nei primi secoli della nostra era quando in Egitto vi furono molti giovani desiderosi di diventare “perfetti” in Cristo. Per farlo scelsero la via della solitudine.
A Bisanzio primeggiava l’Impero col suo sangue, la sua porpora, i suoi ori, la sua lussuria. A fianco gli marciava la Chiesa alla conquista delle anime, dei cuori e delle menti. Ai giovani di simile mondo così organizzato il Vangelo proponeva, in alternativa, la follia dell’ eremita o il silenzio del convento posto in luoghi spesso inaccessibili. Il valore dell’ anima, il pericolo della sua perdizione, le molteplici potenzialità del corpo appesantito dai desideri della carne e perciò teso a subissare l’anima, erano le preoccupazioni di molti di quei giovani.
La prima virtù da acquisire era l’umiltà, che, come si sa, per realizzarsi incontra sempre il suo nemico principale, l’orgoglio. Questo si manifesta con molte parole, quella esige il silenzio. Non è il parlare che rompe il silenzio, ma la smania di essere ascoltati. Le parole dell’orgoglioso impongono il silenzio agli altri affinché possa far udire soltanto la propria voce. L’umiltà è invece silenziosa in tutto.
E venne un uomo che volle vincere il proprio orgoglio e vivere in umiltà assoluta. Il suo nome era Antonio. Nato da una buona famiglia di Coma (oggi Qeman), in Egitto, conobbe il mondo e le sue passioni. Si era nel 270 quando lui aveva vent’anni e si pose una domanda: “Vidi tutte le reti del Maligno distese sulla terra, e dissi gemendo - Chi mai potrà salvarmi? - E udii una voce che mi disse: - L’umiltà -” . Fece allora una scelta radicale: vivere in assoluta povertà, in assoluta solitudine, in assoluto silenzio e sperare così di poter cogliere un giorno i sussurri soffiati del silenzio di Dio. Vendette tutti i suoi beni e cominciò i suoi giorni da eremita. Successivamente si trasferì in una tomba e vi restò vent’anni. Poi passò in una grotta del deserto della Tebaide. Vicino c’era il Mar Rosso..
Dentro la grotta, Antonio viveva col carico della sua fragilità umana e con la tenacia di non impazzire. Quella grotta divenne il suo speciale sepolcro in cui giacere “morto” al resto del mondo e nel contempo “vivo” a
percepire il silenzio di Dio. Ma per arrivare a ciò non bastava la devastante solitudine del corpo. Non la tormentosa ribellione dell’anima. Occorreva imparare a fronteggiare la lotta contro quelle che egli chiamava le tre ‘voci’ del corpo, costanti nemiche dell’anima. La ‘voce ‘naturale’ dei cibi e delle bevande che innescano la lussuria. La voce degli ‘assalti dei demoni invidiosi’ al basso ventre. Progressivamente vinse la prima con pane acqua ed erbe. Vinse la seconda col dolore del flagello e la sapienza della Bibbia. C’era però da vincere un terza voce che spingeva ai limiti dello spavento: la adiaphoria.
Essa consisteva in una condizione nella quale i confini tra l’uomo e il deserto, tra l’umano e il bestiale crollavano confondendosi paurosamente. Il rischio che si correva era quello di cedere alla tentazione di tradire la propria umanità, vagare libero per il deserto come bestia selvatica, mangiare qualche erba sparsa qua e là e lasciarsi andare all’ accidia, cioè alla immobilità dei moti dell’anima, al dissolvimento di ogni speranza di salvezza.
Antonio riuscì a restare sordo alla tentazione dell’adiaphoria e, grazie a tale volontà, conquistò quel perfetto equilibrio fisico e spirituale che dava la sensazione di sentirsi simile al primo uomo del mondo, Adamo.
Il silenzio costituisce dunque il paesaggio principale della vita di Antonio e di tutti Padri del deserto che si susseguirono per alcuni secoli. Antonio capì che più eloquente della parola, il silenzio la sdoppia, la sottolinea, la intensifica. Ne è come il contrappunto e, nell’interstizio del linguaggio, nelle pause, nei momenti di sospensione, veicola, come sovrappiù di vita, un’energia inaspettata che porta il credente verso il punto più alto di sé in cui è possibile incontrare Dio. Quel Dio che rifiuta di lasciarsi raggiungere nel fuoco, nell’uragano, nello Spirito stesso, ma che attende l’uomo nella “voce sottile del silenzio”, com’è detto nel biblico Libro dei Re (I, 19, 12).
LA FORTUNA - Quando si seppe che Antonio aveva “vinto” tutte le “voci” cominciarono ad andare a lui come pellegrini bisognosi di risanare una qualche ferita dell’ anima. Andarono giovani desiderosi di imitarlo. Andarono sacerdoti ai quali alcune parti del Vangelo apparivano esigenti. Andarono i lussuriosi con l’ansia di apprendere come imporre il silenzio alla carne. Andarono teologi inquieti per chiedergli perché Dio “haster panin” (nasconde il volto) e getta l’uomo in mezzo al mondo lasciandolo libero di salvarsi o di perdersi. L’imperatore Costantino il Grande lo chiamò spesso per chiedergli consigli. Ne chiesero anche i Padri del Concilio di Nicea (325), il primo concilio ecumenico del mondo cristiano, in cui si discussero importati questioni teologiche.
Infine morì un 17 gennaio. Era l’anno 356 e lui aveva centosei anni. Fu subito famoso in tutto l’Oriente. Dopo l’anno Mille lo divenne anche in Occidente. L’intera cristianità lo considera il fondatore del monachesimo e il primo degli Abati, perché fu lui a creare, dando regole precise, famiglie di monaci guidate da un padre spirituale (=abbà).
In Egitto si moltiplicarono i siti eremitici. Molti conventi furono costruiti in sua memoria. Uno dei più famosi è il Convento di Sant’Antonio, sorto a duecento metri dalla grotta dell Santo. I suoi affreschi sono stati recentemente restaurati da specialisti italiani.
Le sue ossa furono donate (?) al crociato francese Joselin che le portò nel Delfinato. Si era intorno all’anno Mille. Nel 1070 il conte Guigues di Didier costruì una chiesa presso Vienne e vi traslò le ossa. Questo santuario di Provenza visse in crescendo il fenomeno dei pellegrinaggi perché sempre più aumentarono i poveri afflitti dal “fuoco sacro”, determinato dal consumo del pane fatto con segala cornuta. Anche l’altro malanno, l’herpes zoster, chiamato “fuoco di sant’Antonio” fece accrescere l’affluenza. Lui, il Santo eremita, li “spegneva”, cioè li guariva entrambi. E su questo potere taumaturgico nacque la fortuna dell’Ordine Ospitaliero di Sant’Antonio Abate La sua fondazione ebbe un livello iniziatico ed esoterico simile a quello dei Templari.
Si diffuse subito in molti paesi d’Europa e nei territori delle Crociate. Le sedi più importanti nel Sud Italia furono a Sarno (Salerno) e a Bari, porto d’imbarco per la Terrasanta.
Papa Bonifacio VIII, nel 1298, trasformò l’Ordine dandogli un’impronta esclusivamente ecclesiastica. Nacque così l’ Ordine di Sant’Antonio. La dedizione ai malati degli Antoniani col tempo fu però offuscata da interessi che li distrasse dal Vangelo e per questo vissero una lunga crisi che li portò ad essere assorbiti dall’Ordine dei Cavalieri di Malta nel 1776.
In Basilicata aprirono ad Oppido Lucano una Commanderie (=ospedale più convento), chiuso nel 1780. Rimane soltanto una parete con un affresco che riproduce alcune scene di vita della Basilicata del Cinquecento (da non confondere col vicino convento francescano di sant’Antonio da Padova).
A livello popolare, il santo eremita egiziano divenne tuttavia famoso in tutta Europa proprio in virtù. dei suoi miracoli “terapeutici”. Non basta. La storia di Antonio parla del suo potere di ammansire gli animali del deserto. I frati antoniani amplificarono tale notizia e fecero del Santo il protettore degli animali. Quando capirono che la “principale” medicina per guarire l’herpes zoster era il lardo del maiale, crearono allevamenti di questo animale e una nuova iconografia del Santo in cui collocarono il maialino ai suoi piedi. Gli attribuirono anche altri tre simboli: il bastone a forma di Tau (simbolo dell’Ordine), il campanello (simbolo del pellegrino ammalato) e la fiamma (inizialmente simbolo del fuoco da lui rapito al demonio e dopo della malattia che porta il suo nome).
L’iconografia popolare divenne molto diffusa tanto che anche nelle stalle europee veniva posta un’immagine del Santo a protezione degli animali. Ma questo personaggio intrigò anche l’arte colta, la quale crea grandi capolavori. Il più celebre è del tedesco Matthias Grubewald, della prima metà del Cinquecento. In precedenza se ne erano occupati il Beato Angelico (1436),v Pisanello (1450). Successivamente lo dipinsero Diego Velasquez (1635), Paul Cézanne (1875), Salvador Dalì (1946). Solo per citarne alcuni.
E’ interessante notare anche che non soltanto fiorì una ricca letteratura popolare intorno ad Antonio, sia in Occidente che in Oriente, ma anche Gustave Flaubert scrisse il romanzo “Le tentazioni di Sant’Antonio” (1874), di poco inferiore al suo capolavoro (Madame Bovary).
Un Santo dunque che nella sua vita e nella sua fortuna ha insegnato che il valore dell’uomo non risiede nella sua imperfezione bensì nella sua perfettibilità. E che uno degli strumenti efficaci per raggiungerla è il silenzio.



Parla l’arcivescovo di Acerenza, mons. Ricchiuti
«Binomio fra arte e fede nel nome del Santo»
di Ugo Maria Tassinari
La figura di Antuono, l'uomo che accetta la sfida del deserto, ha una forte attrattiva nei tempi convulsi della modernità.
Monsignor Ricchiuti, arcivescovo di Acerenza, illustra le ragioni religiose e la forza spirituale del progetto di costruzione degli itinerari antuoniani in Basilicata.
«In prima istanza - spiega l'arcivescovo - è evidente che c'è un rapporto biunivoco nel binomio tra fede e arte, un rapporto che si alimenta a vicenda. Dobbiamo poi considerare che dietro le apparenze del benessere e del progresso, per altro messe in discussione dall'attuale crisi finanziaria internazionale, c'è una grande insoddisfazione nelle persone. L'uomomoderno è assetato di trascendenza. La scelta di Antuono, che abbandona i beni materiali e sceglie il silenzio, è affascinante e ancora dice molto».
Per monsignor Ricchiuti la realtà della Basilicata «In qualche misura allude a questa scelta. Il silenzio dei nostri piccoli centri, i grandi spazi aperti e spopolati, sicuramente favoriscono il dialogo con la propria anima. Ma il fondatore del monachesimo nella nostra tradizione è anche legato imprescindibilmente all'agricoltura.
E' il Santo degli animali, ma anche della terra: e infatti a Genzano, che lo ha come patrono principale, il 17 gennaio non si benedicono solo gli animali ma ci si reca anche ai quattro punti cardinali per benedire le terre».
L'arcivescovo sottolinea il valore sociale di questa tradizione: «Il ritorno alla terra, in questi tempi duri di crisi produttiva industriale, può essere uno dei motori di sviluppo del Sud. Ma io non penso ovviamente
a un ritorno al passato, a una stagione di soprusi e arbitri ma a una realtà produttiva che generi benessere e stabilità ».
La figura di Antuono però è legata imprescindibilmente anche alla malattia: e infatti il suo ordine religioso era a scopo ospedaliero: «La malattia è espressione della condizione di fragilità umana - conclude mons. Ricchiuti - era chiaro già nella Genesi che è legata alla perdita della condizione di grazia. Come la morte: dalla
polvere alla polvere. E infatti Gesù, quando opera i miracoli, agisce su persone che in qualche modo sono percepite come segnate. Così la Chiesa, che per riconoscere la santità cerca la verifica di un
miracolo di guarigione, nei santi taumaturghi come Antuono vede la salvezza dei malati come amore di Dio per le sue creature e continuità dell'opera di Cristo».

Fonte : il quotidiano della Basilicata 17/05/2010 Share

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