26 ott 2016

Dal Kurdistan alla Basilicata. Storia di una comunità in fuga accolti in un paese della Basilicata.

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La comunità del Kurdistan a Rotondella (Basilicata)

Storia di una comunità in fuga accolti in un paese della Basilicata.


Tratto dalla pubblicazione: 



Nell’ottobre del 2000 il Ministero dell’Interno sigla un  Protocollo d’Intesa con l'UNHCR , Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, e l'ANCI, Associazione Nazionale Comuni Italiani, per l'attuazione di politiche innovative in materia d'asilo e la costituzione di una rete diffusa di accoglienza in favore dei richiedenti asilo, nonché per la promozione di interventi di sostegno e di integrazione in favore dei rifugiati e di supporto al rimpatrio volontario e assistito, denominato Programma Nazionale d’Asilo (PNA).


Il Programma Nazionale Asilo cercò di sopperire alla mancanza di una legge organica in materia di asilo e di protezione umanitaria, all’assenza di un sistema nazionale d'accoglienza e di adeguarsi alla Decisione del Consiglio dell’Unione Europea[1] che istituì il Fondo Europeo per i Rifugiati (FER) per sostenere gli stati membri in azioni e interventi in materia.
Il PNA prevedeva tre obiettivi principali: la costituzione di una rete diffusa di servizi di accoglienza per richiedenti asilo, persone con permesso di soggiorno per motivi umanitari o per protezione temporanea, e rifugiati; la promozione di misure specifiche dirette a favorire l’integrazione sociale di rifugiati riconosciuti e di beneficiari di protezione umanitaria; la predisposizione di percorsi di rimpatrio volontario e reinserimento nei paesi d'origine, con il coinvolgimento della Organizzazione Internazionale per le Migrazioni.

Dopo qualche mese apparve sulla Gazzetta Ufficiale un invito pubblico rivolto ai comuni a presentare proposte per il finanziamento di progetti di accoglienza[2]: vennero presentati 137 progetti. I progetti giudicati ammissibili furono 114 e in base alle risorse disponibili ne vennero finanziati 63 che divennero 59 a seguito di 4 rinunce per una capacità di accoglienza di 1734 posti, spalmati su 195 strutture.

Tutti i progetti finanziati prevedevano, oltre a vitto e alloggio, anche attività di informazione sulla procedura di asilo, assistenza nelle pratiche burocratiche e accesso ai servizi sociali quali iscrizione al Servizio Sanitario Nazionale e alle scuole dell’obbligo per i minori.
Tra i 59 progetti finanziati c’era anche quello di un piccolo comune lucano: Rotondella, borgo del materano che si affaccia sul mar Jonio e che contava una popolazione di poco superiore ai 3200 abitanti.






In questa piccola comunità il 13 luglio 2001 giunsero 38 rifugiati di etnia curda[3], rifugiatisi in Italia e ammessi al Programma Nazionale di Asilo. 
Fuggivano dai loro luoghi d’origine per scampare alle persecuzioni etniche perpetrate dai governi turco, iracheno e iraniano.

Il gruppo dei curdi giunto a Rotondella era variegato ed era composto da 17 adulti e 21 minorenni e suddivisi tra nuclei familiari (7) e individui  singoli (4).
Il loro arrivo suscitò atteggiamenti diversi nella comunità, divisa tra chi si apprestava a offrire accoglienza e trattamento familiare e chi si poneva domande e alimentava dubbi. Un cronista locale evidenzia i timori diffusi nella popolazione: “Quando, nel 2001, i curdi arrivarono a Rotondella, non mancò tra gli abitanti del posto una vena di scetticismo e di timore. Il solo nome “rifugiati politici” bastava ad incuterla. Chi erano veramente? Che passato avevano? Per quanto tempo sarebbero rimasti?”[4]




Il PNA prevedeva, però, figure di supporto che avrebbero permesso ai rifugiati e alla comunità di accoglienza di coesistere ed integrarsi. Mediatori culturali, psicologi e la presenza continua dell’amministrazione comunale fecero in modo che le diversità culturali non creassero barriere ma che ci fosse un continuo scambio di esperienze culturali.

“Quando i 40 beneficiari del Programma Nazionale di Asilo giunsero a Rotondella ci stupimmo della richiesta di profumi, anziché di cibo, e considerammo con sufficienza quella richiesta, seppur poi soddisfatta. Abbiamo imparato solo in questi giorni, attraverso la ricerca, come i profumi siano parte della preghiera e quindi, un fatto di spiritualità e cultura. Così come non avevamo compreso la resistenza a frequentare i corsi scolastici nei mesi invernali. Oggi sappiamo che il tempo della scuola va dalla primavera in autunno.”[5]




Nel settembre del 2001, alla riapertura delle scuole tutti i ragazzi curdi in età scolare vennero iscritti al ciclo scolastico, ripartiti tra scuola media (3 iscritti), scuola elementare (13 iscritti), scuola materna (2 iscritti) per un totale di 18 scolari.
Alcuni di questi non si sono fermati alla scuola dell’obbligo ma hanno continuato gli studi iscrivendosi alle scuole superiori e qualcuno ha proseguito il percorso fino all’università.
In uno studio pubblicato nel 2004 risulta che il processo di integrazione e convivenza era già positivo. Emerge, infatti, che nella cittadinanza, i timori iniziali di rischio e problematicità legati alla presenza degli stranieri era pressoché assente e non risultava “…tra i problemi che il comune dovrebbe risolvere” [6].

ERDOGMUS E ELCIK VINCONO IL TORNEO ORGANIZZATO DALLA BOCCIOFILA (Rotondella luglio 2016)

Oggi, dopo oltre un decennio di coabitazione, la comunità curda è diventata parte del tessuto sociale rotondellese, benvoluta e autonoma.  I commenti raccolti sono sempre positivi e descrivono la comunità curda composta da “gente tranquilla” e che “si autogestisce”[7].
“…E’ bello, però, poter incontrare per le strade di Rotondella ragazzi che parlano un perfetto italiano, studiano con gli italiani, si coinvolgono nelle attività sportive e associazionistiche del territorio. E’ bello accorgersi della diversa etnia solo dal suono del loro nome…”[8]

Il Rotunda Maris, squadra di calcio che milita in promozione ha tra i suoi protagonisti anche un giocatore curdo.
Alcuni hanno acquisito la cittadinanza italiana. Abdulmecit Elcik, nel marzo del 2010 presso il comune di Rotondella a seguito del decreto di concessione della cittadinanza a firma del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, è stato il primo a giurare sulla Costituzione Italiana. 
Da quel 22 marzo altri 9 curdi hanno ottenuto la cittadinanza italiana.

Dell’originario gruppo di 38 curdi, alcuni si sono spostati verso altri luoghi per motivi di lavoro o per ricongiungersi ai familiari. Altri hanno deciso di rimanere facendosi raggiungere dai propri cari. Oggi la comunità curda di Rotondella conta 21 persone diverse per età e per professione. All’ufficio anagrafe del comune risultano: 1 avvocato, 1 ragioniere, 1 elettrotecnico, 3 operai, 3 casalinghe, 1 pensionato a cui si aggiungono 10 studenti e un infante.[9]

Da aggiungere che la comunità curda, a Rotondella, non è la sola comunità di stranieri presente e nemmeno la più numerosa. 
In una popolazione di 2702 abitanti, i curdi risultano essere la terza comunità numerica tra gli stranieri residenti 2015[10] che conta 109 albanesi, 62 rumeni, 21 curdi, 4 indiani, 2 polacchi, un ucraino. 
Il processo di integrazione ha visto il realizzarsi di una realtà multietnica in cui la comunità rotondellese è stata protagonista.


Il racconto di Ghidrani[11]
Ghidrani[gc1]  inizia la descrizione del suo viaggio partendo dalla separazione da suo marito Tais, nella città di Mosul[12]. Qui il marito aveva lavorato come camionista per gli americani impegnati nella guerra del Golfo[13] e quindi era costretto a fuggire. Tais aveva lasciato la famiglia e si era diretto verso il confine con la Turchia, a Zakho, in territorio iracheno, dove era stato ospitato a casa di un fratello e dove, presto, lo avevano raggiunto la moglie e i cinque figli. Rimasti ospiti per 5 mesi avevano iniziato anche la ricerca di un trafficante per poter fuggire in un paese straniero. Dopo alcune ricerche riuscirono ad avere l’informazione necessaria e la sicurezza che sarebbero stai portati in Turchia. Avevano 3000 dollari in tutto e arrivarono ad Istanbul. Lì, Tais contattò un amico che li ospitò per un mese nella sua casa e ricominciò la ricerca di un nuovo trafficante che li conducesse, questa volta, in Italia. L’impresa non si rivelò facile ma, alla fine, Tais riuscì ad ottenere un nuovo nome, lo contattò e organizzò il viaggio per se e tre dei suoi figli: 2 maschi- Said e Rohad- rispettivamente di tredici e quattordici anni e Sulamy una bambina di otto anni. A questo proposito Ghidrani ci spiega perché il resto della famiglia non lo aveva seguito. La figlia maggiore, kalim, si era sposata con il figlio dell’amico che li aveva ospitati in casa e, quindi, non poteva partire. La stessa Ghidrani non aveva seguito il marito perché incinta e con un altro bambino di soli due anni. Vicino alle coste greche il viaggio di Tais e dei suoi figli fu interrotto, le autorità turche li rimandarono indietro e Tais fu arrestato e messo in prigione. Trascorsi 10 giorni, Tais, i suoi figli e altri prigionieri furono caricati su di un camion e rimandati in Iraq.  Durante il viaggio il figlio maggiore tentò di crearsi un’occasione per la fuga. Chiese all’autista di fermarsi un attimo per bere. Questi accettò e Said, approfittando della sosta, fuggì. A non farcela però fu proprio Tais che, invece, fu nuovamente catturato e picchiato, riuscì a salvarsi soltanto offrendo 2000 dollari ai suoi carcerieri per raggiungere i suoi figli. Riunitisi, cercarono una macchina e tornarono ad Istanbul per ricongiungersi al resto della famiglia. Tais non poteva rimanere lì ma, allo stesso tempo, si rendeva conto che non aveva senso dividere la famiglia. I pericoli erano tanti ma il rischio di perdersi era ancora maggiore, quindi, suggerì di prepararsi a partire tutti insieme. Questa volta la ricerca del trafficante fu più semplice. Il racconto di Ghidrani si fa sempre più preciso: alle 7 del mattino lasciarono la casa che li ospitava, salirono su una affollatissimo autobus insieme ad una cinquantina di persone e iniziarono il loro viaggio, senza soste, verso Azmir. Il camion si fermò in una foresta dove scesero uno alla volta, in silenzio, per evitare che i militari potessero accorgersi di loro. Allo scoccare della mezzanotte tutti insieme (più di 600 persone) furono fatti avviare verso il mare, dopo circa mezz’ora di marcia, videro dei camion sui quali furono nuovamente caricati ed ammassati. Ghidrani, infatti, precisa che su ogni camion potevano starci al massimo cinquanta persone mentre loro erano in 100 e ci ricorda che essendo incinta le faceva molto male avere addosso il peso di altri.
Continua a raccontare ciò che accadeva a coloro che si rifiutavano di salire: “i trafficanti ci colpivano con un bastone ci spingevano dentro con la forza”. Dopo che il camion era stato ricoperto con un telone potettero partire. Proseguirono per due ore sul camion stracarico, fino a quando giunsero in un’altra foresta dove li fecero scendere di nuovamente e li costrinsero a continuare a piedi per un’altra ora. Raggiunta la costa, i trafficanti ordinarono a ciascuna famiglia di prendere una ciotola e di mettersi in silenzio ad aspettare. Tais, pur non sapendo cosa ci fosse la prese e insieme al resto della famiglia aspettò l’arrivo della nave. Inizia così una nuova fase del loro viaggio. Ghidrani racconta di come li fecero salire, uno alla volta, sulla nave. Inizia così una nuova fase del loro viaggio. Ghidrani racconta di come li fecero salire uno alla volta sulla nave. Lì si ritrovarono sfiniti, affamati e assetati. “Eravamo così mal ridotti che quasi tutti siamo caduti nel sonno per la stanchezza; ci siamo svegliati solo verso le 11.00 con un sole che brillava alto nel cielo e con urla della gente che manifestava la propria gioia per essersi liberata della Turchia”. Passata la stanchezza, ricomparve però la fame. Non gli era stato permesso di comprare nulla a terra, dietro la rassicurazione che avrebbero trovato tutto sulla nave. Qui, invece, l’unica cosa di cui potevano disporre erano grosse botti contenenti delle olive salatissime e del formaggio altrettanto salato. Tais allora finalmente la ciotola che aveva preso prima di partire e scoprì che conteneva solo un po’ di pane secco e sporco. La fame era tantissima: Tais, allora, decise di assaggiarlo comunque ma dopo pochissimo tempo cominciò a stare male e a vomitare. Cadde a terra privo di forze. Ghidrani, invece, cercava di allattare la sua bambina. Ghidrani si sofferma sulle condizioni del viaggio e ci spiega come fossero veramente estreme; circa seicentocinquanta persone ammassate sulla nave: i giovani in piedi, mentre le donne a terra con addosso quattro/ cinque bambini.  Il pavimento era sporchissimo. A causa del forte ondeggiare della nave, molti vomitavano e l’aria era irrespirabile anche perché le finestre della nave erano chiuse e non potevano essere aperte. A metà strada, però, per l’irrespirabilità dell’aria decisero di rompere alcune finestre e Ghidrani ricorda di aver visto un mare scurissimo e persino dei delfini ma nuovi problemi stavano sopraggiungendo. “Le onde altissime, più della nave stessa, la facevano inclinare sin quasi a toccare il mare; dalle finestre rotte entrava acqua e una falla si stava aprendo”. La nave rischiava di affondare e, con le lacrime agli occhi, ci racconta di uno dei trafficanti che, piangendo, disse loro: “è finita, non ci sono più speranze”. Quindi sette trafficanti, armati di pistola, li chiusero nella stiva dove rimasero per sette giorni senza mangiare e senza bere con l’acqua che raggiungeva le ginocchia. Due donne non ce la fecero e morirono. I banditi le gettarono in mare per liberarsi dei corpi. Quando fu chiesto loro cosa avessero buttato via, risposero semplicemente che si trattava di cibo andato a male. Dopo tante sofferenze, finalmente la scoperta di essere giunti in acque italiane. I trafficanti, chiamata la polizia, abbandonarono la nave imbarcandosi su una che li seguiva e li lasciarono in balia delle onde. Vagarono per quattro ore senza sapere dove stessero andando e quando sembrava che non ci fossero più speranze, incrociarono una nave da crociera. In massa si raggrupparono sul ponte e con tutto il fiato rimasto in gola chiesero aiuto. La nave, fermatasi, cercò di soddisfare le richieste di cibo e acqua e, dopo aver contattato la polizia segnalando la loro posizione, proseguì il viaggio. Alle quattro del mattino le autorità italiane giunsero sul posto e si attivarono per i soccorsi. Ghidrani era, però, ormai priva di sensi e insieme ad altre quattro donne fu portata via. Solo dopo quattro ore si risvegliò su di un lettino. Non sapeva ancora dove si trovasse. Si guardò intorno e la prima cosa che vide fu il corpo senza vita di una donna marocchina. Trascorsi quattro giorni in ospedale raggiunse la sua famiglia nel campo di prima accoglienza di Crotone. Dopo un giorno di permanenza in questo campo fu trasferita, insieme alla sua famiglia e ad altri profughi, in quello di Borgo Mezzanone (Foggia), dove rimase per tredici giorni prima di essere condotta a Rotondella con altre quaranta persone. A questo punto Ghidrani, con un dolcissimo sorriso, conclude il suo racconto con una frase tipica delle favole: “è finita la storia”. Noi le chiediamo ancora quando avevano pagato per il viaggio e lei continua: “settecento dollari, duecento a persona per adulti mentre i bambini hanno avuto uno sconto”. Questa nostra domanda la fa ritornare al viaggio e riprende:” mille volte ho pregato che ci prendessero piuttosto che morire in mare. È stato terribile, solo Dio era con noi e ciascuno pregava il proprio. Nessuno può immaginare cosa abbiamo passato e se non fossero arrivate le autorità italiane a soccorrerci saremmo morti tutti”. Poi precisa: “mio marito è stato l’ultimo a scendere poi la nave è calata giù a picco”.
Ghidrani manifesta tutta la sua riconoscenza per la gente italiana e per i rotondellesi in particolare. Afferma che: “neanche l’anima può bastare per ringraziare gli italiani per quanto hanno fatto per noi”. “Io - continua indicando la piccola nata in Italia- avrei tanto voluto chiamare mia figlia Italia ma, il medico me lo ha sconsigliato, così ho deciso di chiamarla Maria”. Poi, con voce ferma e decisa rimprovera quanti sono ingrati e si lamentano senza ragione: “se io potessi comandare sui profughi, saprei come guarirli: li rimanderei indietro con la stessa nave, la stessa fame e le stesse sofferenze del viaggio. Solo così potrebbero capire cosa significa e cosa vuol dire essere qui, loro non sono profughi e non sanno cos’è la guerra.” Per chiarirci ulteriormente questo punto Ghidrani spiega che i Curdi scappano esclusivamente dalla guerra, non dalla miseria e dice che in Iraq non dovevano pagare l’acqua, l’elettricità, i viveri, ma solo l’abbigliamento; e avevano un lavoro. Lei, ad esempio, lavorava come infermiera e ha smesso solo per accudire i figli. Le cose sono cambiate quando Saddam ha iniziato a bombardare le loro case. “Noi abbiamo visto la morte quando Saddam Hussein ci ha bombardato; e non potrò mai dimenticare le immagini della gente a pezzettini”. Qui Ghidrani ritorna di nuovo indietro nel tempo, al 1988 a quando Saddam lanciò le bombe chimiche sulle loro teste[14].
Racconta che abbandonarono la loro casa e si diressero verso il confine turco, dove si rifugiarono ma senza consegnarsi alle autorità. Per poter sopravvivere Tais, suo marito, prima si procurò un asino e poi, ogni notte, andava a prendere del cibo. Continuarono così per quindici giorni. Tornati al villaggio, trovarono più di mille e duecento cadaveri: uomini, donne, bambini e anziani; tanto che, per arrivare alla porta della propria casa, furono costretti a camminarci sopra Non riuscendo ad intravedere altra possibilità di salvezza, e in parte rassicurati dalla promessa che quanti si arrendevano non avrebbero corso pericolo, decisero di arrendersi a Saddam. Tais, allora, cominciò a lavorare come autista. Nel 1991 comprò un camion e continuò il suo lavoro in autonomia. Nello stesso anno, però, i bombardamenti di Saddam ricominciarono, i carri armati entrarono nei villaggi e gli aerei iniziarono a sorvolare incessantemente i cieli. Ghidrani che il 15 del mese del Ramàdan[15], mentre lei preparava la cena che conclude il digiuno e attendeva il ritorno del marito, sentì delle forti esplosioni; uscì sulla porta tenendo per mano il figlio di due anni malato di cuore e vide la gente in fuga. Spaventata chiese dove stessero andando e come unica risposta udì le seguente parole: “Non senti? Forse Saddam è venuto!” Ghidrani non sapeva cosa fare, il marito non era ancora ancora tornato e i bambini la pregavano di scappare. La decisione gliela suggerirono gli eventi: una bomba cadde sulla casa dei vicini, la padrona di casa fu colpita in pieno e i pezzi della sua carne si sparsero dappertutto. “Alla vista di quella scena presi i miei bambini e scappai, arrivai fino alla casa della mamma di Tais dove, dopo poco arrivò anche lui in macchina”. A questo punto il racconta di Ghidrani si arricchisce di particolari sempre più atroci: mentre stavano salendo in macchina, un’altra bomba cadde poco distante da loro e ferì al braccio la mamma di Tais. Cercarono di tamponare il sangue e si diressero verso il vicino villaggio dove ricevettero le cure necessarie. Nel villaggio si ritrovarono con alcuni familiari, altre cinquanta persone, e si avviarono verso il confine turco. Camminarono a piedi nudi sulla neve per 15 giorni, fermandosi solo per dormire. Ogni tanto incontravano qualcuno che dava loro qualcosa da mangiare. Tais e i suoi fratelli avevano preso un po’ di soldi e con quelli riuscirono a procurarsi del cibo. Ghidrani vendette, per un pacco di biscotti per il suo bambino, l’unica collanina d’oro che possedeva. Rimasero dieci giorni sul confine turco, in mezzo alla neve, senza acqua ne cibo. Ghidrani ricorda che il cielo era nero e piovevano detriti dello stesso colore; riscaldavano la neve per procurarsi l’acqua che aveva, però, lo stesso colore del cielo. Le estreme condizioni di vita e l’assenza di medicine avevano duramente provato il figlio, malato di cuore che non riuscì a superare quei disagi. Lo seppellirono sotto la neve, in silenzio, con lo strazio nel cuore; Ghidrani rimase vicino al corpicino di suo figlio fino a quando la costrinsero a ripartire. Rimanere ancora lì sarebbe stato pericolo per tutti. Con timore si avvicinarono al confine iracheno dove le autorità gli offrirono della farina e dei viveri con i quali potettero dirigersi nuovamente a casa. Della casa non trovarono che le mura. “Quella notte dormimmo sul pavimento”. Per assicurare il sostentamento alla propria famiglia Tais cominciò a lavorare e, sentito che le forze dell’ONU stavano arrivando pensò che fosse una buona occasione per lavorare con gli americani. La famigli si spostò a Mosul dove Tais lavorò per l’ONU riuscendo anche a comprare una casa. Con il passare del tempo Tais cominciò, però, ad avere sempre più paura che la gente del posto potesse denunciarlo al governo iracheno e decise di licenziarsi. Dopo due mesi dalle dimissioni, gli amici gli comunicarono che era stato segnalato e che doveva scappare al più presto. Saddam aveva dato ordine di uccidere tutti coloro che avevano lavorato per gli americani. A questo punto il racconto di Ghidrani ritorna ai suoi primi pensieri, non senza ribadire il suo stupore e l’incomprensione verso coloro che hanno il coraggio di lamentarsi di non essere riconoscenti e conclude dicendo “loro non hanno visto la guerra”. Le chiediamo dei familiari rimasti in Kurdistan e cosa ne è stato delle loro proprietà e della loro casa. Ci risponde che la casa, così come le proprietà e il camion di Tais, sono stati confiscati dal governo iracheno, mentre per quanto riguarda i suoi familiari ci spiega che li vive, tra gli altri sua figlia Faidran sposata e madre di un bambino. Faidran non può lasciare il Kurdistan perché non ha i soldi per il viaggio. Con grande nostalgia Ghidrani ci confessa vorrebbe poterla riabbracciare e averla con sé in Italia. Oggi, questo, è per lei il sogno più grande.

La Storia di Rasha[16]
Rahsa è l’attuale marito di nome Said, entrambi iracheni, prima di conoscersi abitavano in paesi diversi. Rahsa viveva a Sulaymàniyah mentre il suo compagno a Carcuc: la loro conoscenza ed il loro innamoramento avvenne per caso. Rahsa, accompagnata da sua madre, si sera recata a Carcuc per fare spese. L’autista el taxi con cui viaggiavano aera Said. Fu allora che si videro per la prima volta; a Said piacque Rahsa e, dopo un breve periodo di conoscenza, chiese consenso al padre della ragazza per contrarre il matrimonio. Il padre accettò la proposta e si sposarono nel 1980. Dopo il matrimonio nacquero due bambini e la vita trascorse regolarmente. Ma un giorno la polizia di Saddam Hussein ordinò a Said di far esplodere delle bombe nel Kurdistan. Said contrario a tutto ciò, e non condividendo questo atteggiamento di distruzione e morte, si oppose; per questo motivo fu arrestato e condotto i prigione. Anche Rahsa e i suoi bambini finirono in carcere solo perché curdi e familiari di Said. La loro prigionia, però, fu breve: durò solo quindici giorni, mentre Said rimaneva in carcere. Usciti dalla prigione, Rahsa e i suoi figli andarono a vivere in Iraq dove si trovava il padre della donna. Qui abitarono per sei lunghi anni, senza Said, finché un giorno maturarono la decisione in cerca di una vita migliore e più tranquilla. Così, dall’Iraq si recarono in Turchia. Per la fuga dovettero pagare una consistente somma di denaro, che con l’aiuto del padre di Rahsa riuscirono ad accumulare. Il viaggio fu lungo ed estenuante: le condizioni igieniche pessime, i bambini piangevano per la stanchezza e la fame. In quantità limitate fu distribuito loro del latte per evitare che morissero. Al termine del viaggio sbarcarono in Calabria, vennero condotti successivamente a Borgo Mezzanone e infine inseriti nel Programma Nazionale Asilo e trasferiti a Rotondella. 
Qui, tramite telefonate di amici e parenti, Rahsa apprese la notizia dell’evasione del marito dal carcere. La famiglia si è riunita a Rotondella dopo oltre sei anni di lontananza. 
Il marito ha trovato lavoro e i figli vanno a scuola.


Tratto dalla pubblicazione: 





[1] 2000/596/CE: Decisione del Consiglio, del 28 settembre 2000.
[2] Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana - Serie Generale – “Estratti Sunti e Comunicati”, del 20 marzo 2001.
[3] I curdi sono una popolazione indoeuropea che vive nella regione chiamata Kurdistan suddivisa fra Turchia, IranIraqSiria e Repubblica di Armenia. La consistenza numerica dei Curdi è di difficile valutazione per la mancanza di dati attendibili ma si stima si aggiri intorno ai 30 milioni di persone. La religione predominante è musulmana di rito sunnita.  (NdR) 

[4] P. Suriano, Il primo curdo rotondellese in Il Quotidiano della Basilicata, 23 marzo 2010, pag. 40
[5] V. Palmieri (a cura di), K come Kurdistan, ed. Grafiche Paternoster 2002, Matera, pag. 11
[6] C. Persiani, L’Atlantide Radioattiva, storie di comunità e di scienze nelle terre del silenzio, Consiglio Regionale della Basilicata, Potenza, 2004.
[7] Da una indagine sul luogo effettuata a Rotondella nel marzo del 2015, durante la quale è stato possibile raccogliere alcune le testimonianze
[8] P. Suriano, cit. 
[9] Ufficio anagrafe Comune di Rotondella, marzo 2015.
[10] Ufficio anagrafe Comune di Rotondella, marzo 2015
[11] Fonte orale G. del 13/03/2002 in K come Kurdistan, V. Palmieri (a cura di), cit., pp. 111-118. Brano integrale.
[12] Città dell'Iraq, capoluogo del governatorato di Ninawa.
[13] Agosto 1990 –febbraio 1991
[14] Tra il 16 e il 18 marzo del 1988 l'aviazione irachena bombardò a più riprese la città di Halabja e dintorni con gas nervini. Gli ottantamila abitanti della città, vicina ai confini con l'Iran, non ebbero alcun modo di ripararsi dai gas quali l'iprite, gas nervino, sarin, tabun e probabilmente anche cianuro. Almeno 5.000 persone sono morte in poche ore. Altre 7.000 persone hanno riportato ferite e lesioni tali da morirne in seguito oppure da riportarne danni permanenti quali paralisi, malattie della pelle, tumori, aborti spontanei, danni ai polmoni. L'attacco alla città di Halabja del 1988 è considerato il maggiore massacro con gas nervini compiuto dalla fine della Seconda Guerra Mondiale in poi. Già nell'aprile del 1987 l'APM (ass. Popoli Minacciati) aveva iniziato a informare degli attacchi con gas nervini a complessivamente 87 villaggi kurdi delle regioni montane dell'Iraq settentrionale. Molti dei sopravvissuti agli attacchi sono stati uccisi subito dopo oppure deportati verso l'interno del paese. Nelle province di Erbil, Suleimaniya, Dohuk, Kirkuk, Diala e Mosul migliaia di persone sono state deportate nei deserti dell'Iraq meridionale o in campi di concentramento appositamente istituiti mentre altre migliaia di persone sono state fucilate. Questa politica della terra bruciata, che ormai Il genocidio conosciuto con il nome di Offensiva Anfalm ha causato complessivamente 180.000 vittime nel Kurdistan iracheno.
Fonte: Associazione per i Popoli Minacciati http://www.gfbv.it/
[15] Il Ramàdan è il periodo nel quale si pratica il digiuno. È il nono mese dell'anno del calendario musulmano e ha una durata di 29 o 30 giorni. Nel 1991 il Ramàdan cadde nei giorni tra il 17 marzo e il 15 aprile del calendario gregoriano.
[16] Fonte orale Rasha, V. Palmieri (a cura di), cit., pp. 118-119. Brano integrale.





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